Ad Amman scopriamo l’altro mondo dell’accoglienza. Protagonista un prete italiano, don Mario Cornioli, che qui tutti chiamano abuna Mario. Quarantotto anni, toscano di San Sepolcro, sacerdote diocesano, inviato dalla sua diocesi, anni fa, come missionario Fidei Donum in Terra Santa. Anni e anni a Betlemme, a prendersi cura dei bambini dell’Hogar Nino Dios e di una comunità cristiana sempre più ridotta nei numeri, sempre più isolata e in difficoltà.
Lo spirito, tuttavia, è sempre stato quello della “Chiesa in uscita”, di una vita sempre a disposizione di chi ne avesse bisogno. «A Betlemme – spiega don Mario – la mia missione è stata sempre e solo quella di aiutare chi era nel bisogno, in un contesto difficile, di conflitto e di povertà».
Quattro anni fa l’ulteriore salto, con il trasferimento ad Amman, nella parrocchia di San Giuseppe. «Ho dovuto ricominciare daccapo, ma con lo spirito di sempre. Mi sono accorto, in particolare, che mentre la “macchina” dell’accoglienza dei profughi siriani era ben avviata e funzionante, per i profughi iracheni si stava muovendo solo la chiesa locale. Eppure – rivela – in Giordania, paese di nove milioni di abitanti, sono arrivati qualcosa come tre milioni di profughi. Parliamo del 30% della popolazione…».
Sorride don Mario pensando alle polemiche di casa nostra e precisa: «Per noi questi profughi, a prescindere da quanti siano, sono fratelli da amare e sostenere». In poco tempo don Mario, insieme al Patriarcato Latino e all’Associazione Habibi Valtiberina, ha attivato un programma che non è solo di accoglienza, ma anche di promozione umana, sociale e lavorativa.
«Abbiamo cominciato – chiarisce – con la pizzeria, insegnando ai primi giovani iracheni come si realizza il prodotto e, piano piano, abbiamo trovato spazio per un locale, che nel tempo si è ingrandito. Oggi diamo formazione e lavoro a 27 giovani iracheni. Siamo all’interno della parrocchia, ma aperti a tutta la cittadinanza. Il nostro è diventato uno spazio parrocchiale e cittadino di aggregazione e integrazione sociale. Le nostre famiglie vengono per mangiare, per bere qualcosa la sera, qualcuno anche solo per giocare a carte e passare un po’ di tempo. Da pochissimi giorni inoltre, grazie a Daniele, un maestro di Reggio Emilia, abbiamo avviato il laboratorio di gelateria che sta riscuotendo molto successo».
Così don Mario ci accompagna all’ultimo piano del centro parrocchiale, che si apre su un grande terrazzo dal quale fa un certo effetto notare il campanile che si staglia imponente sul cortile adibito a ristorante-pizzeria.
All’ultimo piano, tuttavia, c’è un altro fiore all’occhiello del Centro Pastorale “Mar Yousef”, un vero e proprio atelier di moda, con capi di abbigliamento prodotti ex novo dalle ragazze del progetto “Rafedin Iraq Girls”. Nell’ampio ambiente ci sono le macchine da cucire, gli armadietti con il materiale e le vetrine espositive. Una realtà che si è rapidamente diffusa non solo in ambito cittadino.
Un piccolo miracolo, in un mondo che sembra mettere in discussione lo stesso diritto alla vita dei profughi: «Il nostro obiettivo – spiega don Mario – è ridare loro dignità, che significa provare ad aiutarli a ripartire da una vita quasi normale. Casa, lavoro e scuola sono i principali terreni sui quali stiamo cercando di dare una risposta per rendere la loro vita meno penosa».
Un esempio che ha scosso molte coscienze: «Questi drammi vanno conosciuti e dopo nessuno può restare indifferente – ricorda il missionario –. Questa è gente che ha perso tutto eccetto la Fede, anche se non riesce ancora a vedere un futuro. L’indifferenza uccide non solo loro, ma anche il nostro cuore. Aver compassione, invece, ci permette di restare umani e salvare la nostra e la loro vita dalla morte fisica e spirituale».
«In lingua araba – spiega ancora don Mario – “benvenuti” si dice “Ahlan wa sahlan”: ebbene, penso che la Giordania possa essere un esempio per tutti i paesi. Nessuno sa quanto sta avvenendo: mentre in Europa si litiga per poche migliaia di persone, questo popolo ha accolto una folla di persone che equivalgono a un terzo dell’intera popolazione. È un po’ come se in Italia arrivassero 20 milioni di profughi… quanti si lamentano sono davvero invitati a venire e vedere come funzionano le cose qui e come l’accoglienza e l’integrazione siano avvenute senza particolari traumi. Davvero una lezione offerta al mondo intero».