Fabrizio Pulvirenti
«Quando ripenso ad ebola, la prima immagine che affiora nella mia mente sono gli occhi dell’infermiere che sta in piedi davanti al letto al mio risveglio, in terapia intensiva». Sono quasi completamente coperti dalla mascherina e dai dispositivi di protezione e Fabrizio Pulvirenti, quell’infermiere, non ha mai saputo nemmeno chi fosse. «Ma in quell’istante uscivo dal coma, tornavo alla vita. Ero salvo». Il ricordo dei 39 giorni trascorsi allo Spallanzani, in isolamento e in guerra col virus per la sopravvivenza, il medico siciliano – che all’epoca lavorava in Sierra Leone come volontario per Emergency – li porta impressi nel cuore. «E un po’ anche nel corpo. Ci sono voluti almeno sei mesi, una volta guarito, per rimettermi in piedi e riacquisire vigore muscolare». In Africa non è più tornato: oggi lavora come infettivologo all’ospedale di Enna, impegnato giorno e notte nell’analisi dei protocolli antibiotici adottati nei vari reparti.
Dottore, che impressione le fa sapere che i due pazienti cinesi colpiti dal coronavirus in Italia si trovano in quella stessa terapia intensiva, allo Spallanzani?
In questi giorni sono molto combattuto. Da una parte rivivo, come uomo, la mia malattia, penso ai medici impegnati in queste ore con quei pazienti, le stesse straordinarie persone che si sono prese cura di me nel 2015, supportandomi costantemente anche dal punto di vista psicologico. Dall’altra parte guardo a quello che si sta agitando attorno all’epidemia di coronavirus come medico, e con un atteggiamento molto severo.
In che senso?
L’epidemia di influenza quest’anno, alla quarta settimana di gennaio, è arrivata a colpire 3 milioni e mezzo di italiani, con una mortalità inferiore a quanto atteso. Ci si aspettava, cioè, sarebbe stata di 250 persone al giorno, ci siamo attestati tra i 180 e i 220. Stiamo parlando di un numero di vittime ben più consistente di quelle del coronavirus, che finora ne ha fatte 500. Si tratta di persone che muoiono in casa nostra, eppure di questo non ci preoccupiamo affatto. Il punto è che le malattie infettive vanno affrontate con criterio epidiemologico e rigorosamente scientifico. La prima causa di morte nel mondo sono gli incidenti stradali, ma non ho mai visto demonizzare i produttori di case automobilistiche. Lo stesso si può dire per il fumo: nessuno se la prende coi produttori di tabacco. Invece ora mettiamo all’angolo i cinesi.
Peraltro questo virus è molto meno pericoloso di ebola...
Assolutamente, nonostante certa cattiva informazione li abbia accostati in queste settimane. Gli unici punti in comune tra ebola e coronavirus sono l’origine animale (nel caso di ebola il pipistrello della frutta) e, trattandosi di virus, la cura: ovvero la cosiddetta “terapia di sostegno”, che consta di antipiretici, idratazione, sostegno alla respirazione in caso di complicazioni. Per quanto riguarda il tasso di mortalità, tra i due c’è un abisso: il coronavirus si attesta tra il 2 e il 3%, ebola tra il 40 e il 60. È la ragione per cui quando sono arrivato allo Spallanzani, quel 25 novembre del 2015, le speranze che io potessi sopravvivere erano al lumicino: avevo febbre altissima, vomito, dolori lancinanti in ogni parte del corpo.
Dov’era la sua famiglia?
Implorai mia moglie, e le mie due figlie, di non venire a Roma. Non avrebbe avuto senso. Non avrebbero nemmeno potuto vedermi. Le ragazze, che all’epoca avevano 18 e 19 anni, hanno capito. Sono state straordinarie, nell’affrontare quel momento.
Come comunicava con i medici e gli infermieri?
Tramite un interfono, finché sono stato cosciente. Tra la terza e la quarta giornata dopo il mio arrivo mi sono aggravato. Da lì c’è un blackout di due settimane.
E l’Africa? Ha avuto paura di tornarci? Oggi molti degli italiani che sono rientrati da Wuhan raccontano di non voler più andare in Cina.
In Africa non sono tornato, ma non per paura. Se mi chiedessero di farlo per curare persone, mi imbarcherei già domani. Continuo con passione a fare il mio lavoro di infettivologo. Siamo troppo pochi in Italia: i vigili della città di Roma ci superano in numero. Eppure, dove c’è un infettivologo, tutti gli studi dimostrano che i tempi di degenza, il numero di infezioni ospedaliere e persino i costi del paziente si riducono drasticamente. Oggi siamo terrorizzati da un’infezione, mentre nei nostri ospedali manca il presidio di chi di infezioni si occupa. Serve fare una riflessione.