E' ancora pressing diplomatico per la risoluzione del caso eritreo. «Serve un fronte comune tra Egitto, Israele e Autorità palestinese. Dobbiamo lavorare perché un dramma come quello che si sta consumando sul Sinai non si ripeta più» osserva il sacerdote eritreo don Mosé Zerai. La vicenda dei profughi tenuti in ostaggio a Rafah resta aperta, ma nel frattempo non si ferma l’azione di sensibilizzazione della comunità internazionale affinché si faccia carico della sorte di migliaia di migranti in fuga nel deserto. «Adesso c’è da salvare la vita di 50 persone, tra cui 6 donne in forte pericolo – continua don Mosé –. All’inizio io speravo nell’iniziativa del governo egiziano, ma i segnali arrivati sono stati tutt’altro che rassicuranti ». Il riferimento non è solo al doppio scontro a fuoco che ha fatto due vittime, un poliziotto di Rafah e un giovane eritreo, segno evidente della crescente tensione intorno al luogo in cui sono detenuti gli eritrei. Don Mosé e altre Ong pensano anche all’imponente dotazione di armi a disposizione dei trafficanti, maggiore addirittura di quella utilizzata dalle forze dell’ordine egiziane. A questo proposito, proprio ieri una delle organizzazioni non governative in prima linea per la liberazione degli ostaggi, il gruppo EveryOne, è riuscita a entrare in contatto con un funzionario di polizia di Rafah, a cui ha chiesto conto dei motivi dell’inerzia degli aÈ genti nei confronti dei trafficanti. «Il problema è che sono armati e organizzati molto meglio di noi – è stata la risposta –. I trafficanti hanno moderni kalashnikov, mentre le forze di polizia sono costrette a operare con armamento leggero » in virtù di un accordo sottoscritto tra Egitto e Israele più di trent’anni fa, finalizzato alla demilitarizzazione delle zone di confine vicino al Sinai. Ciononostante la polizia di frontiera ha effettuato diverse operazioni, arrestando numerosi gruppi di africani, che sono stati denunciati per ingresso illegale, interrogati e incarcerati. Sono in tutto 26 le persone tuttora detenute nelle prigioni locali. «L’Egitto sembra essere a caccia non di trafficanti ma di profughi» osserva don Mosé. Che poi chiama in causa di nuovo l’Europa. «Non basta un richiamo generico al Cairo da parte dell’Europarlamento, ma è necessario offrire possibilità per dare asilo a chi è in fuga dalla guerra. Serve davvero un percorso legale completo all’insegna dell’accoglienza dei richiedenti asilo africani ». Il rischio è che invece eritrei, etiopi e somali nelle mani dei trafficanti vengano poi riconsegnati alle autorità dei Paesi di provenienza. Sul campo, la situazione resta drammatica: le bande di beduini hanno il controllo assoluto del territorio, grazie anche a una serie di sottoclan, circa un ventina, che nelle scorse settimane ha spostato più volte gli ostaggi da un nascondiglio all’altro.