Migranti nell'hub di Lampedusa - Reuters
Nonna Teresa, 84 anni, s’è messa ai fornelli per cucinare la pastasciutta e gli altri membri della famiglia si sono dati da fare per imbandire la tavola. Perché l’anziana signora e suo figlio Antonello Di Malta, vigile del fuoco, non se la sono sentita di lasciare fuori dalla porta una decina di adolescenti provenienti dal Burkina Faso che l’altra sera chiedevano da mangiare.
Hanno fame, i migranti. E sono stremati. «Uno di loro si è inginocchiato per supplicarci – racconta il pompiere – e allora ho deciso di non andare più a cena con gli amici e di accoglieri a casa nostra».
Così, la veranda della famiglia Di Malta si è trasformata per due giorni in una specie di mensa pubblica. Durante la settimana, divisi in gruppi, i più giovani tra quelli sbarcati nell’isola sono andati in giro per le strade con i vestiti logori, parecchi anche senza scarpe. E negli occhi ancora il terrore di un viaggio da incubo.
Decine e decine di minori non accompagnati si aggirano ancora nei bar e nei locali del paese per acquistare con i pochi spiccioli che si ritrovano in tasca, o per elemosinare, cibo e bottigliette d’acqua. Non è sempre facile, infatti, ricevere i sacchetti che vengono distribuiti tre volte al giorno dai volontari della Croce Rossa nell’hotspot di contrada Imbriacola dove c’è da aspettare anche ore sotto il sole, e molti, scavalcata la recinzione, cercano di sfamarsi altrove. C’è chi è arrivato da poco e non mangia da giorni.
Aspettano di essere trasferiti in altre temporanee destinazioni ma i tempi si allungano troppo. Parecchi chiedono agli abitanti di potersi lavare. «Quanto costa un trancio di pizza?» ha domandato l’altro giorno un nordafricano alla commessa di una rosticceria. Dietro di lui una coppia di turisti milanesi, sentita la richiesta pronunciata in uno stentato italiano, si sono offerti di pagarglielo. «Prendilo pure» gli hanno detto, spiegandosi a gesti.
Marianna Esposito nella sua friggitoria offre arancine di pesce ai migranti che fuori dal locale frugano tra gli avanzi lasciati dai clienti sui tavoli. «Abbiamo cercato di aiutarne qualcuno, avevano fame e necessità di andare in bagno» osserva Giuseppe Brancaleone, titolare del “Sicilian Food” in corso Vittorio Emanuele II.
Poco più in là, in via Roma, il ristorante “Il gallo d’oro” ha abbassato la saracinesca e i camerieri si sono messi a servire pasta e bruschette a quelli che passavano sulla via.
Sulla piazza della chiesa di San Gerlando, invece, volontari della parrocchia distribuiscono il pranzo ad altre centinaia di disperati che non hanno trovato posto nel centro di accoglienza. Un piccolo gruppo si è radunato di fronte alla caserma della Finanza e i militari hanno provveduto a rifocillarli e poi a scortarli a piedi verso il molo dove hanno atteso il traghetto per Porto Empedocle.
Giovedì sera si festeggiava la Madonna di Porto Salvo, patrona dell’isola, e diversi ragazzi africani si sono uniti ai residenti e ai turisti a ballare sulle note di Bob Marley e Shakira. Un po’ di spensieratezza dopo tanti patimenti.
Quella degli isolani è una lezione di umanità, che rilancia la proposta di “Avvenire”, di assegnare a Lampedusa il Premio Nobel per la pace. La generosità senza confini e il cuore grande dei lampedusani non possono restare confinati in questo lembo di terra: la vicinanza «al fratello che arriva da lontano», senza troppe domande e senza facili recriminazioni, è una testimonianza, umile e forte, che parla all’intero Paese e quindi al mondo. Perché l’Italia è anche questa.