Diseguaglianze e ingiustizie a livello globale costringono le persone a fuggire dai propri territori, innescando meccanismi di sfruttamento e alimentando il fenomeno della tratta. Oltre 40 milioni le persone nel mondo costrette a qualche forma di schiavitu, lavorativa o sessuale. Un dramma che si inserisce nel più complesso scenario delle “migrazioni forzate”. È l'analisi che emerge da “Trattati da schiavi”, il 48° Dossier con dati e testimonianze che Caritas Italiana pubblica nella Giornata mondiale del rifugiato. Una ricorrenza per riflettere sulle “migrazioni forzate” che vedono un numero sempre maggiore di persone costrette a lasciare il proprio Paese per cause legate a conflitti, calamità naturali o povertà estrema.
Dopo un ventennio di sostanziale e costante diminuzione, a partire dal 2011 il numero dei rifugiati nel mondo è in continuo aumento; un trend confermato nello scorso 2018 che, in base ai dati dell'Acnir, ha toccato la quota di 70,8 milioni di persone. La Siria mantiene il triste primato del Paese con il più alto numero di persone riconosciute come rifugiati, oltre 6,7 milioni. Si stima inoltre che 40,3 milioni di uomini, donne, bambini siano oggi costretti a vivere una qualche forma di moderna schiavitù. Tra questi, tanti profughi e richiedenti asilo nel corso del loro viaggio cadono nella rete di trafficanti senza anima. Il Dossier si concentra proprio su loro, sulle speranze violate di profughi e richiedenti asilo vittime di tratta e sfruttamento; sulla diffusione del terribile fenomeno della tratta che colpisce trasversalmente Asia, Africa, Europa e Medio Oriente. Il 66% delle vittime di tratta identificate in Europa sono donne. La tipologia dello sfruttamento delle vittime è in primis lavorativa (53%), mentre il 43% è finito prigioniero del mercato del sesso. Per quanto riguarda il lavoro forzato, il 38% delle persone è nell’edilizia, il 20% in ambito manifatturiero, il 18% in agricoltura.
Nel Dossier vengono riportati dati, testimonianze e un focus sul Libano, terra di mezzo, che nei suoi stretti confini tesse insieme le storie di persone provenienti da diversi continenti e Paesi, soprattutto dalla vicina Siria, vittima di una guerra senza fine. Ed è la Terra dei Cedri ad essere particolarmente colpita dal fenomeno della kafala: 250 mila immigrati, provenienti da Sri Lanka, Etiopia, Bangladesh e Filippine lavorano sotto questo regime come lavoratori domestici. La maggior parte sono donne: oltre 186 mila secondo le stime del governo libanese, più le migliaia prive di un permesso di lavoro regolare. Il funzionamento è semplice: i migranti che vogliono cercare lavoro nella Penisola araba, in Libano e in Giordania, entrano in contatto con agenzie della nazione dove emigreranno. Queste ultime procurano uno sponsor (kafeel), che permette loro di entrare nel Paese ospitante. Normalmente lo sponsor è il datore di lavoro che anticipa le spese per il permesso di lavoro ed è responsabile del visto. Per gli immigrati inizia così lo sfruttamento. I lavoratori, i cui documenti sono trattenuti dai datori di lavoro, non possono cambiare impiego o rientrare nei propri Paesi quando vogliono. Sono segregati e soggetti a sfruttamento e violenze.
La Chiesa cattolica e altre confessioni cristiane, lottano per porre fine al dramma della tratta proponendo reti di solidarietà. Come COATNET, un network globale che unisce 45 ONG e associazioni cristiane, coordinate da Caritas Internationalis, o Thalita Kum, la Rete Internazionale della Vita Consacrata contro la tratta di persone, che favorisce la collaborazione e l’interscambio di informazioni. Nello specifico in Libano la Caritas, grazie a una rete capillare di servizi, offre un supporto a 360 gradi, che va dall’accoglienza protetta in 4 centri residenziali, per le vittime che decidono denunciare i propri sfruttatori, alle campagne di sensibilizzazione che coinvolgono la popolazione e le istituzioni, fino alle azioni di lobbying sul governo per la promulgazione di leggi più efficaci per la prevenzione e il contrasto del fenomeno.