Il lavoro nelle serre
Fatima lo diceva al padrone che non voleva entrare nelle serre subito dopo i trattamenti con antiparassitari. «Le “medicine” mi fanno male, sto male». Lei lo sapeva che si doveva aspettare dieci giorni dopo ogni trattamento. Ma il padrone era irremovibile e la minacciava. «Mi diceva: 'Se vuoi il lavoro vieni, se stai male resti a casa'».
Così Fatima, marocchina, 35 anni, in Italia da 11, con un figlio nato nel nostro Paese, andava a lavorare e entrava nelle serre di Eboli a raccogliere ortaggi e insalate. «Senza mascherina, guanti e scarpe da lavoro. Sentivo fastidio al naso e alle mani, e alla fine del lavoro vomitavo nero». Soprattutto, ci dice, dopo i trattamenti di prodotti gassosi sui pomodori, probabilmente anticrittogamici, altamente tossici. «Ricordo tutto, quando dormo mi torna tutto in mente». Lavorava per otto ore, le davano 32 euro al giorno, assieme ad altre 70-80 donne. Fino all’1 dicembre 2014. «Quando sono tornata a casa mi sono accorta che le mani, le braccia e le gambe era coperte di tanti puntini neri».
È l’inizio del dramma per Fatima. Ma lei continua a lavorare, a entrare in quelle maledette serre. Lo fa ancora per tutta l’estate 2015 mentre la malattia avanza. Alla fine il medico le diagnostica meningite da meningococco di gruppo C. Fulminante. Quella di Bebe Vio, la campionessa paralimpica di scherma. E la citiamo non a caso. Come per Bebe anche a Fatima arriva la cancrena, la giovane donna perde i piedi e parte delle mani. Solo i trattamenti in camera iperbarica possono bloccare l’avanzata della malattia. Ma bisogna andare fino a Salerno a più di 30 chilometri. Ad aiutarla è la Caritas di Teggiano-Policastro. La sua storia viene scoperta nel 2016 da Amhid, tunisino, mediatore culturale della Caritas, da 25 anni in Italia, il cui cugino lavorava proprio con Fatima. Così viene assicurato il trasporto tre giorni a settimana per tre mesi. L’anno successivo ad impegnarsi sono i gruppi scout Agesci di Eboli e Battipaglia. La devastante malattia sembra bloccata, ma la vita di Fatima è sconvolta.
La incontriamo nella sua casa di Eboli, dove vive col figlio di 10 anni e col marito, separati in casa dopo la sua malattia. È al primo piano ma non c’è l’ascensore e quindi, le poche volte che esce, deve scendere le scale strisciando per terra, per poi rimettersi in carrozzina dove ormai è costretta a vivere. Ma non si vuole arrendere. «Voglio fare tante cose – ci dice piangendo –. So che piedi e mani se ne sono andati, ma voglio lo stesso fare cose, non stare sempre a casa stanca». Vive della pensione di invalidità e dell’indennità di accompagnamento, 680 euro al mese.
Ma 450 se ne vanno subito per l’affitto della casa. Così lei e il figlio devono vivere con poco più di 200 euro. Ma c’è tanta dignità in questa donna e nel suo bambino. «Donna senza mani e senza piedi non è donna. Per questo vorrei le protesi. Quelle per i piedi le potrò avere gratis, ma per le mani ci vogliono 15mila euro e io non li avrò mai». Il figlio prova a sostenerla. «Mamma quando ho finito i compiti ti dò le mie mani, così puoi fare i tuoi lavori. Ma poi me le ridai».
Parla benissimo italiano, è perfettamente integrato. Suona il campanello di casa. Sono due compagni di scuola, italiani. Tutto normale per loro. «Sono contenta per mio figlio, va bene a scuola, sta bene. Dio è grande», sorride Fatima. Ma poi tornano le preoccupazioni. Ha trovato una nuova casa, al quinto piano ma con l’ascensore e comunque pagherà 400 euro al mese. «Vorrei una carrozzina elettrica per essere più autonoma ma la Asl non me la dà. Trovo tutte le porte chiuse. Leggo sui giornali a proposito dei migranti la frase 'aiutiamoli in Africa'. Io dico, aiutate chi è in Italia».
Non chiede tanto Fatima che in Italia ha trovato sfruttamento e una gravissima malattia. Vuole tornare a vivere, vuole delle mani, una carrozzina. Ne avrebbe diritto per quello che nel nostro Paese ha sofferto. Vista la sua condizione avrebbe anche diritto a una casa popolare. E probabilmente anche alla pensione di malattia. Chi la vuole aiutare? Chi la vuole ascoltare? Fatima conosce la storia di Bebe Vio e le ha scritto. Siamo certi che le risponderà. Ma lei ha un’ultima preoccupazione. «Altre donne come me continuano ad andare a lavorare in quelle serre in quelle condizioni. Per favore aiutatele».