sabato 22 giugno 2024
Inquietante quadro di traffici illeciti nella zona in cui è morto il bracciante indiano
Lavoratori indiani protestano dopo la morte di Satnam Singh

Lavoratori indiani protestano dopo la morte di Satnam Singh - Fotogramma

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A quasi una settimana dalla sua morte, la tragedia umana di Satnam Singh sta smuovendo le coscienze delle persone in tutto il Paese. A far impressione è stata la dinamica, il povero lavoratore con il braccio troncato e le gambe fratturate è stato preso e portato fuori la sua abitazione invece di essere soccorso dai sanitari. Sul fatto vanno avanti le indagini coordinate dalla Procura di Latina. E viene fuori che Renzo Lovato, padre di Antonello Lovato che ha abbandonato il bracciante indiano ferito davanti casa, è indagato da cinque anni per reati di caporalato.

L'uomo che dopo l'incidente aveva accusato Satnam Singh di aver «commesso una leggerezza che ha fatto male a tutti», è sospettato dalla procura di Latina di avere sottoposto «i lavoratori, almeno sei, a condizioni di sfruttamento e approfittando del loro stato di bisogno», corrispondendo loro una retribuzione inferiore a quella stabilita dal contratto nazionale. Inoltre, avrebbe violato la «normativa sull'orario di lavoro, sulla sicurezza e sull'igiene dei luoghi di lavoro» e avrebbe sottoposto i lavoratori «a condizioni di lavoro e a situazioni alloggiative degradanti». I fatti contestati si riferiscono ad un arco temporale che va dal novembre 2019 al maggio 2020. Con Lovato sono indagate altre due persone responsabili di una cooperativa agricola.

I particolari che stanno emergendo in questi giorni portano, dunque, a uno scenario più vasto sulla condizione di questi lavoratori che quando non sono proprio schiavizzati in molti restano ai margini di una vita sociale degna di questo nome. Ne sanno qualcosa proprio alla Caritas diocesana di Latina, da oltre dieci anni in prima linea contro lo sfruttamento dei lavoratori stranieri in agricoltura. Un servizio che per ovvi motivi viene condotto in modo tale da garantire la sicurezza degli operatori e delle persone che a loro si rivolgono per chiedere aiuto. «Come Chiesa pontina dal 2014 partecipiamo al progetto Presidio della Caritas Italiana», ha spiegato il direttore della Caritas diocesana, Angelo Raponi, «ai lavoratori specie indiani del settore agricolo offriamo supporto presso il nostro Centro di Ascolto di Latina e con un piccolo ufficio, in un container collocato ai margini del quartiere indiano di Borgo Hermada a Terracina, proponendo servizi gratuiti di assistenza legale, orientamento, accompagnamento per le pratiche di regolarizzazione, aiuti alimentari tramite la parrocchia. Siamo consapevoli che si tratta di piccoli gesti, che hanno riguardato piccoli numeri di persone, e che forse non hanno minimamente scalfito il sistema culturale, economico e le leggi del mercato, che tutto regolano e determinano, spesso con l’avallo della legge». La Caritas diocesana vuol evidenziare che il caporalato, inteso come modalità di accesso al lavoro, è solo un aspetto di una situazione più vasta. «Nel territorio pontino il caporalato purtroppo è una dimensione strutturale del lavoro in agricoltura, oggi con gli stranieri ma in passato con gli stessi italiani – ha continuato Raponi – per quei pochi giorni di picco l’imprenditore agricolo prendeva la manovalanza necessaria e la pagava a tu per tu. Si va avanti così ancora oggi».

Un sistema che perdura nonostante ci siano leggi e disposizioni più rigide che in passato rispetto all’accesso al mondo del lavoro, specie per gli stranieri. Eppure, anche le istituzioni pubbliche, come la stessa Prefettura di Latina, sono anni che varano iniziative e progetti, come il Fami con fondi europei, per contrastare il fenomeno dello sfruttamento e, nonostante ciò, restano sempre le zone grigie, spesso all’interno delle norme.

«Oltre le situazioni al limite, tipo essere pagati la metà rispetto ai contratti, noi rileviamo le problematicità del decreto flussi», ne è convinto l’avvocato Elio Zappone, che cura il Servizio Legale della Caritas diocesana, «sappiamo di stranieri che pagano 13-14mila euro per essere invitati a lavorare in Italia, soldi poi spartiti tra i vari intermediari nei loro Paesi e qui da noi. Una volta arrivati, entro sette giorni, devono andare in Prefettura con il datore di lavoro che li ha invitati per firmare il contratto di lavoro. Spesso l’imprenditore non si presenta, e non ha obblighi giuridici per farlo, e lo straniero entro 15 giorni diventa irregolare finendo nei circuiti dei vulnerabili. Sappiamo di imprenditori che con questo sistema, chiamando 30-40 persone l’anno, prendendo parte dei soldi che i poveretti pagano per entrare e senza assumerli, hanno rimesso in sesto i conti dell’azienda». Gli irregolari possono solo chiedere un permesso per la protezione speciale alle Questure, «ma i tempi spesso sono lunghi e alla fine gli irregolari finiscono per alimentare le situazioni di illegalità nel mondo del lavoro», ha concluso l’avvocato Zappone.

Qualche segno di cambiamenti inizia a vedersi. Lo ha spiegato don Paolo Lucconi, parroco di Borgo Hermada, una frazione di Terracina, il cui territorio è compreso nel “triangolo d’oro” dell’agricoltura pontina e che vede una importante presenza di stranieri, specie indiani, che lavorano nei campi della zona. Da anni offre ospitalità all’ufficio Presidio di Caritas. «La nostra Caritas parrocchiale aiuta circa trenta famiglie di stranieri. Qui da noi, un borgo rurale, i residenti mi hanno spiegato che nella stragrande maggioranza delle aziende si lavora in regola, sono poche e conosciute le realtà che operano in modo illegale e tra l’altro già colpite dalle operazioni della Polizia in passato», ha spiegato don Lucconi, «mi arrivano anche notizie su una sorta di rete interna tra i braccianti indiani per cui se uno di loro dovesse essere trattato male dal datore di lavoro gli altri lavoranti solidarizzano con il connazionale e fanno fronte comune». Un segno di speranza per il futuro.

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