In un’incisiva intervista pubblicata ieri, martedì 6 luglio, sulle pagine di questo giornale, Natalino Irti ha spiegato con esemplare chiarezza la labilità della definizione di «identità di genere» all’art. 1 del cosiddetto ddl Zan, e a discendere l’«abisso interpretativo» che si apre nell’applicazione dell’art. 4, dove viene meno, con la tassatività della norma penale, il principio fondamentale che «tocca alla legge e non al giudice definire l’azione vietata». Il giurista ha quindi argomentato la necessità di rivedere in modo chiaro e netto il ddl per raggiungere, in modo condiviso e innanzi tutto senza ambiguità lesive della stessa tenuta in giudizio della legge, il più che condivisibile principio di fondo: un’aggiuntiva e specifica disincentivazione penale di comportamenti omofobici e transfobici.
Vorremmo dare un contributo intuitivo al ragionamento in punto di diritto di Irti. Mettiamo cioè il caso che un eterosessuale noto per posizioni ideologiche distanti dagli auspici della comunità lgbt, o semplicemente infastidente con la sua presenza, entri in un bar che sia ritrovo abituale della comunità, e venga aggredito in quanto retrivo eterosessuale, e che denunci l’aggressione subita, si applicherà ai suoi aggressori l’aggravante di pena prevista dal ddl Zan?
Quesito e richiesta in giudizio del tutto legittima, considerato che anche l’eterosessualità, ancorché più diffusa, è un’identificazione di genere, collassata com’è nell’articolato della legge la tradizionale identità connessa al sesso biologico. E questo perché se, come vogliono ampi settori della comunità lgbt, il genere non esiste, ma c’è solo uno spettro di genere, logica vuole che in quello spettro ci siano anche i colori binari, maschile e femminile. Se si risponde no, a questa domanda, che l’aggravante Zan non può applicarsi, perché è prevista solo per comportamenti omofobici e transfobici, ne discende l’incostituzionalità della norma, in quanto non tutte le identità di genere sono tutelate alla stessa maniera. Se si risponde invece affermativamente, ne discende che la norma è pleonastica, perché già le attuali norme prevedono aggravanti per gli abietti motivi (tra cui quelli che afferiscono alla sessualità) dell’aggressione alle persone e alla loro eguale dignità.
Se quest’osservazione ha un senso, dovrebbe spingere urgentemente a trovare una riscrittura condivisa del ddl Zan, sia politicamente, per farlo approvare con certezza e senza indugio, sia nel merito razionale dello scrivere bene le leggi. A meno che non si insista a fare della norma in questione una bandiera a mio avviso mal sventolata. E persino esposta alla tentazione che è meglio non farla approvare, la legge, a detrimento proprio delle persone che socialmente hanno bisogno di una protezione maggiore in diritto. Tutto per poter continuare a sventolare quella bandiera, utile a mantenere in piedi un mandato "rappresentativo" di un problema non risolto.
A questo proposito mi viene in mente un apologo, relativo a un medico condotto e al suo figliolo neolaureato che comincia ad aiutarlo in ambulatorio. L’apologo recita più o meno così. «Papà, ti ricordi quel signore che da anni curi per un infezione sotto l’unghia di un dito?». «Sì, perché?». «Stamattina è passato ancora una volta in ambulatorio, mi sono accorto che aveva una spina di pesce che aveva sotto l’unghia, e glielo ho tolta. E subito si è disinfiammato il dito, è guarito». «Stupido, hai finito di mangiare pesce fresco la domenica!». Il signore era il pescivendolo del paese. Ecco, credo che la buona politica sia quella del figliolo neomedico, che perde un cliente, ma risolve un problema. Chi ha orecchie per intendere, intenda.
Eugenio Mazzarella è filosofo, Università Federico II di Napoli, ed è stato parlamentare della Repubblica.