sabato 6 febbraio 2021
Il lavoro di Caritas e altri organismi per gestire i flussi in modo legale ed evitare l'inferno della Libia dopo quello delle violenze e della fame nei Paesi di origine. L'impegno delle diocesi
Bimbi ad Agadez, in Niger

Bimbi ad Agadez, in Niger - Foto Biella

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Gli occhi del Sultano di Agadez dicono tutto. Prima ancora delle parole, ben scandite da sotto il turbante nel nostro incontro esclusivo: «Bisogna restare uniti anche nelle difficoltà. Ognuno deve capire quello che succede all’altro, la persona rifugiata ha diritto quanto noi a una vita degna». Oumarou Ibrahim è il 53esimo discendente del Sultanato tuareg del Air ed è venerato dagli abitanti della Regione di Agadez e di buona parte del resto del Niger come artigiano di pace.

È grazie a lui che nel Paese più povero al mondo – un nigerino su due è indigente, l’analfabetismo è all’80 per cento – non c’è spazio per la discriminazione verso gli stranieri in fuga da guerre, terrorismo e violenze endemiche.

Ma è soprattutto grazie ai corridoi umanitari di Cei, grazie a Caritas Italiana, in collaborazione con Unhcr, Alto Commissariato Onu per i rifugiati, che nelle prossime settimane, in accordo col governo italiano, una cinquantina di loro potranno salire su un volo per l’Italia. Uomini, donne e bambini vulnerabili che troveranno ospitalità in famiglie volontarie appartenenti alle 70 diocesi coinvolte nel programma.

A due settimane dal ballottaggio delle presidenziali, in Niger sono giorni frenetici. Tra la capitale Niamey e la città Unesco alle porte del Sahara, da anni crocevia di migrazioni verso Nord ma anche di ritorni forzati dalle vicine Algeria e Libia, l’equipe di Caritas è in missione per ascoltare i racconti dei rifugiati.

Luciana Forlino, Daniele Albanese e Oliviero Forti con l’aggiunta di Alganesh Fessaha – attivista eritrea da 35 anni in Italia, presidente di Gandhy Charity e faro nella lotta al traffico di esseri umani – devono scegliere, con un enorme equilibrio mentale a cavallo tra professionalità ed empatia, chi sarà idoneo a partire. Entrare con loro nelle stanze e osservare sguardi, gesti e toni di voce è roba da stomaci forti.

«Un fiume in piena di terribili abusi, paure e privazioni ma anche speranze di lasciarsi tutto l’orrore alle spalle» commenta Forlino in una pausa. Per lei e i colleghi questa missione è ancora più difficile delle precedenti: fare i colloqui con le mascherine e il distanziamento impedisce quel linguaggio non verbale così importante, fatto di strette di mano, di sorrisi nei momenti di distensione, di abbracci consolatori nei momenti bui dell’intervista.

Momenti che sono inevitabimente ricorrenti: la donna che in Congo ha dovuto camminare sopra i cadaveri per scappare dal villaggio dato alle fiamme e poi vivere di stenti in Mali prima di trovare il passaggio per il Niger; il ragazzo torturato dai trafficanti in Libia cui hanno poi massacrato davanti agli occhi l’amico di prigionia, minacciandolo di fargli fare la stessa fine se non avesse pagato; la madre sudanese che per salvarsi la vita non ha potuto nemmeno raccogliere e dare degna sepoltura al corpo del figlio raggiunto da una raffica di kalashnikov. Tre delle tante, troppe storie di malvagità umana a cui i corridoi cercano di ridare un necessario lieto fine.

Sono 1.050, dal 2017 a oggi, le persone portate in Italia dall’organismo della Cei con il meccanismo dei canali umanitari da Paesi terzi relativamente sicuri come Etiopia, Giordania, Turchia e, appunto, Niger. Che, seppur attraversato da contrabbandi di ogni sorta, è l’unico Stato del Sahel capace di offrire protezione anche alle centinaia di migliaia di persone in fuga dalle azioni terroristiche negli Stati confinanti.

In tempi di pandemia – qui l’impatto è minimo, con poche vittime, reparti ospedalieri tutt’altro che saturi e una carica virale molto bassa – il ponte umanitario italiano è ancora più virtuoso: è, infatti, l’unico attualmente aperto. Perchè Francia, Germania e Inghilterra, le altre nazioni partner dell’Unhcr nei reinsediamenti, hanno bloccato tutti i trasferimenti in atto, anche quelli con i documenti pronti.

L’azione italiana, che ha l’avallo dei ministeri di Interno ed Esteri, dimostra invece che questi viaggi umanitari si possono continuare a fare in tutta sicurezza. Quando arriviamo sotto la sede di Niamey dell’Alto commissariato Onu, circa 150 persone, in prevalenza eritree e somale, stanno manifestando proprio contro il blocco tedesco.

Alessandra Morelli, capo dell’Unhcr in Niger, concorda seduta stante con Fessaha la necessità di una mediazione con i rifugiati: è un momento delicato di dialogo che si risolve con un forte allentamento della tensione. «Con le frontiere chiuse i corridoi sono oggi indispensabili e non hanno solo una vocazione umanitaria: esortano i governi europei a tutelare i profughi che si trovano in luoghi in cui non possono avere un futuro», rileva Forti che di Caritas Italiana è anche responsabile politiche migratorie.

Profughi che, una volta inseriti in un contesto in cui tornano ad avere dignità e possibilità, sono un valore aggiunto per la società. Come sanno bene le famiglie, e con loro le diocesi, che hanno aperto loro la propria porta di casa a questa esperienza. E come riconosce lo stesso ambasciatore italiano in Niger, Marco Prencipe: «I corridoi umanitari permettono di superare le proprie paure. E riconoscere nell’altro una ricchezza anziché una minaccia».

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