«Sono un cittadino, un volontario e un militante contro il razzismo. Con i vivi e soprattutto con i morti, che sotterro» così si racconta il pescatore tunisino Chamseddine Marzoug
«Sono un cittadino, un volontario e un militante contro il razzismo. Con i vivi e soprattutto con i morti, che sotterro». A parlare è Chamseddine Marzoug, tunisino. È lui l’uomo che salva, raccoglie e dà dignità ai migranti annegati nel Mediterraneo. A 56 anni, da almeno un decennio e con scarso aiuto istituzionale, il pescatore e volontario della Mezzaluna Rossa si incarica personalmente di dare sepoltura ai cadaveri che il Mare Nostrum restituisce alle spiagge tunisine.
Fino al 2000 i cadaveri sospinti dalla corrente verso le coste tunisine erano interrati in cimiteri musulmani. Poi, per mancanza di spazio, nel 2006 le autorità individuarono il terreno a Zarzis, località a sud di Tunisi, tra Djerba e la frontiera con la Libia. Qui i corpi finivano in fosse comuni.
Nel 2011, dopo la primavera araba tunisina, questo pescatore si fece carico del "cimitero degli ignoti" chiedendo allo Stato di poter dare sepoltura individuale alle vittime. Si tratta di quattrocento cumuli di terra scavati a mano sul promontorio della discarica: oggi è un santuario postmoderno, un luogo della memoria che interpella la coscienza d’Europa. Chamseddine seppellisce i tanti annegati con i propri sogni, i cui corpi non sono reclamati dai familiari. L’unica lapide con un nome è quella di Rose-Marie, una nigeriana di 28 anni, che salpò dalla Libia su una barcaccia con 126 persone a bordo, tutte sopravvissute al naufragio, tranne lei.
Il resto dei tumuli è anonimo, alcuni di essi sono semplicemente segnati con la data in cui è stato recuperato il corpo in mare. Su uno più piccolo, una macchinina giocattolo. «Aveva cinque anni – ricorda Chamseddine –. Fu recuperato in mare con una donna e ho pensato fosse sua madre. Per questo li ho sepolti vicini, la testa l’una accanto all’altra...». I cadaveri ritrovati al largo o sulla spiaggia sono lavati dal volontario, ricomposti come vuole la tradizione tunisina, e portati in ospedale, per individuarne sesso ed età, quando è possibile dalla dentatura. Poi, in sacche identificate da un numero e la data di ritrovamento, sono presi in carico da Marzoug per la sepoltura. Ma il cimitero, su due livelli, è ormai saturo.
Per ampliarlo, con il Comitato regionale della Mezzaluna Rossa guidata da Mongi Slim, Chamseddine ha lanciato un anno fa una petizione online, su www.cofundy.com, d’intesa con le autorità locali, per raccogliere 30mila euro e acquistare un terreno di 2.500 metri quadrati. È quello del vecchio stadio di calcio, a circa un chilometro di distanza, dove vorrebbe costruire la nuova necropoli dei senza nome.
«La vita li ha rifiutati. Noi non possiamo farlo. Dobbiamo dar loro una sepoltura dignitosa» insiste. Vite stroncate, odissee ricorrenti di migranti-schiavi di Paesi sub-sahariani, vittime di traffico ed estorsioni, che preferiscono la morte piuttosto che tornare nei centri di detenzione in Libia.
Chamseddine Marzoug è il protagonista del reportage intitolato "I morti che mi abitano", pubblicato sulla rivista 5W, vincitore del Premio "Ortega y Gasset" di Giornalismo 2019. Firmata dal regista di Barcellona, Agustín Morales, e dal fotografo Eduardo Ponces, la cronaca «riunisce tutte le qualità del buon giornalismo e colpisce l’emozione del lettore con un focus diverso», ha sottolineato la giuria del premio.
Nel loro lungo lavoro, Morales e Ponces ricordano che quelli interrati da Marzoug sono una parte minima delle vittime. «Nel 2014, ben 3.283 persone sparirono nel tentativo di attraversare il Mediterraneo, secondo i dati dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. In Afghanistan, il primo grande conflitto del XXI secolo, morirono 3.699 civili, secondo i dati della missione Onu nel Paese» annota il direttore di 5W. E scandisce anno dopo anno la strage, ancora più crudele da quando l’operazione Mare Nostrum è stata sostituita dalle altre missioni Ue, che hanno per principale obiettivo la vigilanza e protezione delle frontiere, e non salvare vite. Da gennaio, sulla rotta iberica mediterranea, sono state 407 le persone annegate. Giovani, donne, bambini che non avranno tutti la fortuna di ricevere almeno un sepolcro a Zarzis.
Già un anno fa il volontario tunisino approdò al Parlamento Ue di Strasburgo per denunciare che non c’è più spazio per le sepolture. «Per affrontare un tema fondamentale nei nostri tempi come le migrazioni – ha spiegato Augustín Morales – c’è bisogno di tempo e sensibilità, di un racconto più umano e reale».