Spira un vento «finalizzato a spazzare via le ong». Un controsenso, in un Paese che non ha «vie d’accesso legale per i migranti». Quando invece bisognerebbe occuparsi anche di «ampliare i progetti Sprar, esportarli nell’Ue e investire, non solo a parole, nella cooperazione e nello sviluppo». Non con le noccioline, se paragonati ai 6 miliardi pagati a Erdogan, «dei 500 milioni promessi dal vertice di Bruxelles ». Il prefetto Mario Morcone è quel tipo di civil servant che sa cosa vuol dire servire lo Stato senza rinunciare, con garbo e franchezza, al contributo del proprio punto di vista. Specie se scomodo. Passato per il Kosovo, poi con Andrea Riccardi al ministero per la Cooperazione internazionale e, da ultimo, capo di gabinetto del ministro Marco Minniti, ha concesso questa sua prima intervista da neo direttore del Consiglio italiano rifugiati (Cir).
Come giudica gli sviluppi di questi giorni?
Percepisco che c’è una forte spinta finalizzata a spazzare via dal Canale di Sicilia e dal Mediterraneo Orientale tutte le Organizzazioni non governative che si sono occupate di salvataggi. Non voglio dare giudizi sulle scelte dell’attuale governo, ma bisogna riflettere bene sulle conseguenze.
Il precedente esecutivo aveva però spinconomia to perché le Ong in mare firmassero un codice di regolamentazione. Non era cominciata già allora la pressione sui volontari? Cosa accadrà adesso?
L’idea del Codice di condotta era quella di riportare nei binari delle regole e dei trattati internazionali le modalità di intervento delle Ong e non ha impedito di restare nel Mediterraneo per continuare a salvare vite. Ma ora, azzerando la loro presenza, oltre ai rischi per i migranti bisogna considerare le ricadute per l’inevitabile coinvolgimento, fra gli altri, delle navi mercantili nelle operazioni di soccorso, con conseguenze non secondarie anche di carattere economico per gli operatori, oltre alla maggiore pressione che ne deriverà a carico della Guardia costiera italiana.
In altre parole, lei non crede che le traversate si fermeranno. Intanto la Libia chiede altri «aiuti», mentre molti Paesi africani respingono l’ipotesi di campi di raccolta Ue-Onu nei loro confini. Come si può intervenire?
Credo che occorra inquadrare il tema su più fronti e intervenire contemporaneamente su di essi. Il contrasto al traffico di esseri umani si fa provando a governare i flussi e aprendo canali di accesso legale. Occorre pretendere che l’Alto commissariato Onu per i rifugiati e l’agenzia delle Nazioni Unite per i migranti possano agire in misura più significativa in Libia, specie per aiutare le persone più vulnerabili a lasciare i centri di detenzione e uscire dal Paese. Eravamo riusciti a organizzare i primi due voli diretti di profughi da Tripoli a Roma. Un fatto senza precedenti. Invece di fermarsi bisogna continuare e moltiplicare questi trasferimenti. Occorre poi aprire corridoi legali accordandosi con i Paesi di provenienza. Una scelta strategica, perché toglie 'mercato' ai trafficanti e facilita la cooperazione, mettendo in moto un’eprogetti legale in quei Paesi, puntando su investimenti, progetti seri e trasparenti. Non serve buttare soldi sul tavolo, ma individuare con i partner le iniziative di sviluppo vero.
Da domani lei sarà direttore del Cir. Cosa la aspetta?
Il Cir è impegnato su due fronti: quello italiano, nel quale si occupa dei diritti, dell’assistenza legale e soprattutto di proteggere i rifugiati e favorire la loro inclusione. Sul piano internazionale, che per noi è la sfida più recente, abbiamo dei in Nord Africa, soprattutto in Libia. Qui Acnur e Oim sono e devono diventare sempre più protagonisti, ma intorno a loro seguiamo alcuni centri di accoglienza e detenzione ai quali lavoriamo per ottenere e migliorare il rispetto dei diritti, elevare gli standard di assistenza e portare fuori i più vulnerabili e chi ha diritto alla protezione.
Si parla poco degli Sprar, il Sistema italiano di protezione per rifugiati e richiedenti asilo. Che giudizio ne da?
È una di quelle strade che ha dato ottimi risultati, grazie al coinvolgimento dei Comuni e dei territori, un percorso strategico proprio per evitare i ghetti, la marginalità, le tensioni e favorire l’integrazione. Purtroppo il governo Gentiloni aveva fatto poco sul piano dell’inclusione sociale. Penso invece che questo modello vada rilanciato, fatto conoscere ed esportato in tutta Europa.