Un'immagine delle violenze sui detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere - Ansa / Esclusiva del quotidiano Domani
Sarà il direttore generale detenuti e trattamento del Dap, Gianfranco De Gesu, a guidare da martedì la commissione ispettiva nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Un fatto eccezionale, perché di solito ispezioni del genere sono affidate a personale locale. Non calano del resto le polemiche sulle violenze subìte dai detenuti soprattutto dopo le rivolte "da lockdown" della primavera 2020, e non soltanto in Campania. Ieri a Monza sono stati rinviati a giudizio 4 agenti di Polizia penitenziaria, accusati di lesioni aggravate e violenza privata, oltre a falso, calunnia, abuso d’ufficio e omessa denuncia. Intanto emergono altri particolari sulla «orribile mattanza» (così il gip) del 6 aprile 2020 a Santa Maria Capua Vetere; in una chat interna gli agenti si sono consultati per decidere di rimandare le visite mediche dei detenuti pestati: «Dobbiamo ancora temporeggiare qualche giorno, così non avranno più i segni» dei colpi di bastone o manganello. Infatti nei verbali di polizia carceraria figurano diversi mancati trasferimenti nelle infermerie per «motivi di sicurezza». Ieri sono salite a 77 (erano 52) le sospensioni decise dal Dap nei confronti dei poliziotti destinatari di misure cautelari; sospesi dal servizio anche i due vicedirettori e un vicecomandante dell’istituto casertano. Interessante la dichiarazione spontanea resa da un ispettore carcerario presente ai fatti, secondo il quale «sono stati i colleghi venuti da Secondigliano a prendere in mano la situazione, noi non potevamo fare nulla. Ho cercato più volte di difendere dei detenuti dai pestaggi prendendo qualche manganellata, mi sono anche buttato su un detenuto per difenderlo. Quelli di Secondigliano dicevano a più riprese che "se la vedevano loro"».
«Intollerabili violenze gratuite». Così definisce la "mattanza" nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, don Raffaele Grimaldi, Ispettore dei cappellani delle carceri. Che però avverte: «La stessa società che oggi condanna la violenza che si è consumato dietro le sbarre, dovrebbe essere propensa ad accogliere chi esce dal carcere. Quando stanno in carcere va tutto bene, ma quando escono? Chi tende una mano? Tante volte i detenuti si trovano soli e rischiano di delinquere ancora e di tornare in carcere. Anche la non accoglienza è una violenza verso il diritto alla speranza».
Don Raffaele, cosa ha provato vedendo le immagini dei pestaggi?
Sono rimasto scosso perché era inimmaginabile una violenza così gratuita. Ho provato anche una grande sofferenza perché sapevo che ne risentiva tutto il Corpo della Polizia penitenziaria anche se ad essere coinvolta è una piccolissima parte. In tanti anni di servizio nelle carceri ho incontrato tante persone motivate, che aiutano i detenuti, che dialogano con loro, per aiutarli a vincere la solitudine. Ha detto bene la ministra che con queste violenze gratuite si è tradita la Costituzione, aggiungendo che hanno oltraggiato la dignità personale dei detenuti, macchiando anche la divisa di tanti uomini e donne che lavorano con grande professionalità all’interno delle carceri.
L’impressione è che non si sia trattato di una reazione a caldo ma di una violenza organizzata.
In quel periodo si stavano vivendo nelle carceri grandi criticità. Ma anche in un contesto critico non sono ammesse queste violenze gratuite. I detenuti stanno scontando una pena, soffrono a causa della loro detenzione e c’è bisogno del massimo rispetto per queste persone. Chiaramente in quei momenti di criticità, la sicurezza non è facile. Si cammina su un filo, non è molto facile gestire questi momenti.
Le tensioni di un anno fa erano provocate anche da una situazione carceraria sempre in difficoltà.
Nelle carceri continuano ad esserci i soliti problemi. C’è la difficoltà di vivere una serenità di fondo. In questo periodo di lockdown il carcere ha vissuto momenti terribili, di isolamento totale, nel quale cappellani, volontari, attività, tutto era sospeso. In questo sguardo di sofferenza possiamo capire il perché di tante reazioni. Adesso che stiamo uscendo fuori da questa triste realtà bisogna guardare avanti, in positivo.
E come?
Bisogna soprattutto investire nell’area trattamentale. Gli operatori, gli educatori sono sempre meno e quindi i detenuti sono abbandonati a se stessi. Invece c’è bisogno di investire sulla formazione, sulle figure professionali che aiutano i detenuti a vivere la loro carcerazione non come repressione ma come momento di riscatto, per riprendere in mano la loro vita e soprattutto per affrontare la nuova libertà.
La presenza di queste figure allenta anche la pressione sugli agenti penitenziari.
Certamente. La Polizia penitenziaria e le direzioni fanno fatica a gestire questo malumore che serpeggia all’interno delle carceri. Anche gli agenti che vivono un lavoro immane sono carcerati tra i carcerati. E quindi hanno bisogno di un’attenzione particolare, di essere seguiti, di una formazione permanente. Soprattutto i più giovani.
Come sono le condizioni del carcere di Santa Maria Capua Vetere? Quali sono le maggiori criticità?
Oltre al sovraffollamento, la mancanza di personale. È risaputo da tempo. E non solo lì. Molti vanno in pensione e c’è poco ricambio. E quando non c’è personale tutte le altre attività rallentano perché hanno bisogno della presenza del personale per garantire la sicurezza.
C’è chi ha detto che gli agenti hanno fatto bene, perché i detenuti sono tutti delinquenti.
Chi dice certe cose non sa cosa è la cultura dell’accoglienza, della misericordia. È l’atteggiamento di chi dice "hanno fatto del male, devono stare chiusi dentro, e anche la violenza può essere un metodo per imparare a non essere violenti quando escono fuori". Mentre la piena applicazione della Costituzione che parla della funzione rieducativa del carcere è la migliore risposta alla violenza. È questo i lavoro che devono fare gli agenti penitenziari ma anche gli educatori, noi cappellani, il mondo del volontariato. Siamo chiamati a questo altrimenti il carcere parte già fallito. Ma c’è bisogno di maggiore linfa, di incoraggiamento, per sostenere quelli che operano nelle carceri. È un lavoro nascosto, non si conoscono i sacrifici e le tensioni che si vivono e che non escono sui giornali. Proprio per questo ho appena scritto un libro intitolato "La voce di Dio dietro le sbarre", un accompagnamento pastorale e spirituale per chi vive il suo servizio nelle carceri.