Le Regioni del Sud allargano e compattano il fronte comune contro il caporalato e la gestione criminale del lavoro in agricoltura. Una piaga ben più diffusa di quanto appaia, che ferisce non solo braccianti stranieri ma anche italiani, altrettanto sfruttati e malpagati.
Nei giorni scorsi Calabria, Basilicata, Puglia, Campania e Sicilia hanno presentato al ministero dell’Interno un progetto per l’eliminazione dei ghetti gestiti da criminalità organizzata e caporali che utilizzano in regime di schiavitù oltre 15mila migranti. Lo spiega Pietro Simonetti, del coordinamento politiche migranti della Regione Basilicata: «Gli interventi proposti dalle Regioni, in attuazione anche dei protocolli sottoscritti con le Prefetture prevedono la realizzazione di centri di accoglienza pubblici, l’utilizzo delle liste di prenotazione per il lavoro regolare, già avviate in Basilicata, il trasporto, sperimentato a Palazzo San Gervasio, in provincia di Potenza nel 2017 e attività di inclusione, formazione e integrazione che coinvolgono anche i lavoratori comunitari e italiani». I numeri d’altronde parlano chiaro: il caporalato attualmente gestisce nel Mezzogiorno oltre 300mila lavoratori, in grande parte migranti.
La proposta – avanzata per la prima volta unitariamente dalle cinque Regioni – è all’esame della Commissione europea, che nei prossimi giorni valuterà modalità e contenuti per l’erogazione dei finanziamenti nell’ambito delle risorse emergenziali del Fondo asilo migrazione e integrazione (Fami). La Regione Basilicata, in particolare, ha inserito nel progetto anche misure per recuperare il patrimonio pubblico inutilizzato per l’occupazione, a partire dal comparto agroalimentare, di giovani lucani e migranti secondo un utilizzo integrato dei fondi europei e nazionali e con la partecipazione delle Prefetture, delle parti sociali, dei Comuni e del volontariato. La realtà lucana è fotografa dal segretario regionale della Fai Cisl, Vincenzo Cavallo, che indica le zone più a rischio nel Potentino ricco di pomodori e nel Metapontino che può vantare produzioni di alto livello: fragole, pesche, ortaggi e molto altro. «In alcuni periodi dell’anno la richiesta di manodopera è forte e alcune aziende non seguono i canali legali rivolgendosi a caporali anzitutto in Puglia e Calabria. Tra l’altro ormai il sistema è gestito da efficienti cooperative».
Il sindacalista sottolinea che la legge 199 contro il caporalato è efficace per quanto riguarda le pene ma non altrettanto per la prevenzione. A parere di Cavallo servirebbero premialità per quanti rispettano la legge e quindi sono costretti a sopportare costi di “produzione” superiori a chi sceglie scorciatoie illegali. Molte prefetture hanno sottoscritto da tempo protocolli mirati a fronteggiare le piaghe caporalato e sfruttamento. Nel 2016 un’intesa sperimentale è stata siglata dai misteri dell’Interno, del Lavoro e delle Politiche sociali, delle Politiche agricole, alimentari e forestali; dalle regioni Basilicata, Calabria, Campania e Puglia; dall’Ispettorato nazionale del lavoro e da Acli Terra, Caritas italiana, Croce rossa italiana, Libera, Alleanza delle cooperative italiane, Coldiretti, Confagricoltura, Cia e Copagri; e pure dai sindacati di categoria Flai Cgil, Fai Cisl e Uila Uil. Un mese fa l’ennesima inchiesta della Guardia di finanza calabrese ha scoperto migranti sfruttati da caporali e imprenditori con pochi scrupoli che approfittavano dello stato di bisogno degli stranieri per pagarli molto meno degli italiani: i braccianti erano retribuiti con un euro per ogni cassetta di mandarini raccolti in Basilicata.
Mentre proprio ieri sono stati rinviati a giudizio per omicidio colposo e caporalato un imprenditore agricolo salentino e un caporale sudanese, accusati di aver provocato la morte del bracciante sudanese di 47 anni Abdullah Mohamed, stroncato dal caldo e dalla fatica il 20 luglio 2015.