Per la prima volta da vent’anni, la questione settentrionale non ha più padroni (e padrini). La crisi dell’asse del Nord, costituito da Pdl e Lega, che solo nel 2006 controllava Piemonte, Lombardia e Veneto di fatto condizionando il governo nazionale, è però solo l’aspetto più immediato di un fenomeno che ha radici profonde (e peraltro non ha impedito a Berlusconi e Maroni di riproporre ancora la vecchia alleanza). Il vero allarme sociale, che l’ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari ripropone in questa intervista, è rappresentato dalla fuga silenziosa di diverse imprese, che hanno spostato stabilimenti e personale all’estero, impoverendo di fatto il territorio. Dall’Austria alla Carinzia fino all’Est Europa inoltrato, si cerca l’avventura imprenditoriale fuori dai confini italiani perché nessuno risponde alla domanda di un fisco più favorevole e di uno Stato più leggero. Ma l’emergenza non riguarda solo il popolo delle partite Iva e dei padroncini. Il dramma occupazione va avanti da anni e si sintetizza nelle decine di vertenze aperte sui tavoli del governo, che accomunano aziende di medie dimensioni storicamente "made in Italy" a multinazionali che hanno deciso di disinvestire. Il loro è un addio al nostro Paese, che segna una sconfitta soprattutto per chi credeva che questa terra fosse un Eldorado destinato a produrre solo benessere e ricchezza.Per Massimo Cacciari le prossime elezioni non rappresenteranno affatto un’occasione di rigenerazione della politica. «Perché in Italia tendiamo sempre a drammatizzare tutto, anche nei toni, e per questo il voto è paradossalmente un rischio. A volte siamo fratelli rivali, molto spesso ci comportiamo come tifosi di una fazione contro l’altra. È il problema secolare di questo Paese. Non siamo una nazione, semplicemente perché ci manca un ethos comune». Da Venezia, dove l’ex sindaco e filosofo con la passione per la politica segue in modo distaccato il rapido passaggio tra la Seconda e la Terza Repubblica, i rumori di fondo sulle liste e i giochetti per ottenere una candidatura, arrivano assai attutiti. «Le formule del passato non mi interessano, erano ridicole già dieci anni fa». È il governo del territorio ciò che sta a cuore all’intellettuale veneto, che ha sempre rimproverato al centrosinistra un grave ritardo culturale nella comprensione dei fenomeni sociali a nord del Po, profetizzando peraltro con largo anticipo l’implosione del centrodestra, che da queste parti è sempre stato egemone. «La politica portata avanti dal Palazzo in questi anni ha rappresentato un tradimento e un inganno per questa terra».Professor Cacciari, partiamo proprio dalla questione settentrionale. Non crede che questa volta si corra davvero il rischio di un vuoto di rappresentanza?Sento in giro parole d’ordine vecchie. Chi crede più ormai alle promesse sulle tasse o sulla macroregione del Nord? Di certo, i ceti produttivi di regioni come Lombardia, Veneto e Piemonte non hanno più punti di riferimento. Le imprese che stanno bene delocalizzano e scappano all’estero, le altre crepano. Quando va bene, si riesce a tenere sul territorio qualche gioiello di famiglia. Eppure parliamo di settori fondamentali per la nostra economia, senza il cui rilancio non possiamo salvarci. Ma non si vede uno straccio di progetto strategico, solo operazioni dettate dallo stato di necessità.Allude all’intesa Pdl-Lega?È evidente che non hanno alcuna possibilità di vincere, a meno che la sinistra si suicidi. Carroccio e Popolo della libertà non c’entrano più con il Nord e gli elettori non crederanno alla riedizione della solita alleanza. La differenza è che Berlusconi qualche voto lo prenderà, raccattando nostalgici grazie ai potenti mezzi economici e mediatici di cui dispone. Temo invece che lo stesso ragionamento non valga per la Lega e per il povero Maroni: lo scontento nella base è altissimo e i militanti potrebbero scegliere Grillo o l’astensione.Quanto conterà la variabile esterna, cioè l’Europa?Mi auguro che proprio grazie alla mediazione dell’Europa alla fine possa prevalere la saggezza. Dietro al progetto di Monti c’è questa consapevolezza. Ho letto la sua agenda e la trovo condivisibile: dice cose ragionevoli che anche la maggior parte del Pd approva. Il punto è capire se ci saranno le condizioni per una piccola grande coalizione con Bersani dopo il voto.Qual è la sua previsione?In un modo o nell’altro, saremo commissariati. Il Cavaliere prenderà voti facendo molta demagogia, vestendo i panni dell’euroscettico e dichiarando guerra alla Germania. Uno come lui non ha nessun problema di verità nei confronti del Paese. Più importante è quel che farà Bersani, che spero non si metterà a inseguire Vendola.Il tema del lavoro non può attrarre consensi in un Nord che ha smarrito la propria vocazione industriale?Un momento: prima del diritto al lavoro, vengono le imprese che investono. Senza un programma serio di diminuzione del carico fiscale sulle aziende e sui lavoratori, non si può pensare all’occupazione, a meno che non si voglia fare una campagna elettorale sull’articolo 18. Bisogna indicare dove si possono rintracciare le risorse necessarie per dare respiro alle famiglie e insieme avviare politiche di sviluppo. Su questo, anche Monti è stato troppo generico.Quanto peserà il vento dell’antipolitica?Meno di quanto si creda. L’astensione tornerà a livelli quasi fisiologici e anche l’entusiasmo autunnale per il Movimento cinque stelle si attenuerà. Io aspetto ancora di vedere programmi sensati e credibili. Nell’ultimo anno e mezzo la classe politica della Seconda Repubblica ha avuto tutto il tempo necessario per mettersi d’accordo su una qualsiasi, minima autoriforma interna. Invece non è successo niente: non sono riusciti neppure a fare una nuova legge elettorale...
Il filosofo ed ex sindaco di Venezia: c'è un vuoto di rappresentanza, gli elettori non crederanno alla riedizione dell'accordo tra Pdl e Lega. Bersani? Parlare di lavoro non basta. (Diego Motta)
© Riproduzione riservata