Massimo Galli - .
«Lundici di giugno, ch’era il giorno stabilito, la processione uscì, sull’alba, dal duomo. Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d’ampi zendali, molte scalze, e vestite di sacco. (…) Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s’avanzava la cassa, portata da quattro canonici… » (I Promessi Sposi, capitolo XXXII). Sono quattrocento anni che si sa. Durante una pestilenza, una processione rappresenta un bell’azzardo. Esattamente come, mutatis mutandis, i festeggiamenti per una finale di coppa: «Finora disponevamo esclusivamente di testimonianze e stime, ma adesso abbiamo i dati reali su cui fondare le nostre considerazioni», annuncia Massimo Galli.
Si riferisce alla sua ricerca sulla peste di Milano, quella del 1630, descritta nei Promessi Sposi, da cui è tratto il passo con cui inizia la nostra intervista. Che in queste ore l’emergenza Covid ci faccia tirare il fiato, lo dimostra il fatto che il primario di Malattie infettive dell’Ospedale Sacco di Milano può dedicarsi anche agli amati studi sulla storia delle epidemie. Sono da tempo uno dei suoi interessi scientifici. Lui è uno dei simboli della nuova Resistenza, anche se sul punto taglia corto, dicendo «mi sono trovato qui e ho fatto la mia parte». In realtà, sul fronte ospedaliero, questo è stato il nostro Piave. «Medici e infermieri: siete l’Italia. Grazie», campeggiava su un famoso striscione rimasto appeso per mesi davanti al Sacco. Galli ci lavora dal 1978. Paragonare Covid-19 e la peste è azzardato, sul piano eminentemente scientifico. Però i ricorsi storici ci sono, e sono molti. Anche quella del 1630 vide impegnati gli Ufficiali di Sanità che dettavano le regole. Anche allora c’era un Tribunale di Sanità. Anche la Milano del 1630 aveva un 'primario' come Galli, il protomedico Ludovico Settala, non sempre ascoltato dalle autorità e poco amato dai portatori degli interessi economici. Ovviamente c’erano e ci sono ancora delle differenze. La peste si diffonde per contatto – solo nella sua forma polmonare, che è rarissima, il contagio avviene tramite aerosol – ed è necessario uno scambio di ectoparassiti, come pulci e probabilmente anche pidocchi. Ma questo lo sappiamo noi, adesso.
L’infettivologo del Sacco di Milano ricostruisce questi due anni terribili e parla dei suoi studi storici sulla pestilenza del 1630 che anticipava alcuni dei problemi creati dalla pandemia «Chi ha fatto il Covid, e sono forse sei milioni di persone, e ha ancora anticorpi, non dovrebbe fare il vaccino. Ed invece gli si impone di vaccinarsi per ragioni burocratiche»
Ai tempi di Settala era un po’ come nell’inverno del 2020 con il Sars-CoV-2, cioè non si aveva idea di come il malanno si diffondesse e da cosa fosse causato. Tuttavia, un’analoga pestilenza nel 1576, sempre a Milano, aveva già insegnato quanto fossero pericolosi gli assembramenti e ciò nonostante quella ostensione – nonostante la riluttanza dell’arcivescovo, il cardinale Federigo Borromeo – si fece lo stesso, tutti fiduciosi che avrebbe fermato le morti. Non fu così. « La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que’ crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne’ borghi, e che allora serbavano l’antico nome di carrobi, ora rimasto a uno solo, si faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella peste antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia in piedi: di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno. Ed ecco che – scrive Manzoni nel capitolo XXXII –, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima… ». Galli apre un file e ci mostra il suo tesoro: «Vede? Abbiamo fatto la geolocalizzazione delle parrocchie studiando l’influsso della processione. Non siamo più alle stime: siamo riusciti a dare una data di morte, un nome, un cognome e un 'indirizzo' a cinquemila vittime. Ne deriva che è possibile che la processione abbia influito in modo importante sulla diffusione del morbo, specie nelle aree centrali della città, che fino a quella data erano state solo parzialmente colpite». Proprio come è successo dopo Atalanta-Valencia? Si dice che la storia insegni. Se non altro, perché la peste non è archeologia. «Non parliamo di una malattia morta – osserva il medico – ma ben presente in Africa, dove si è verificata un’epidemia nel 2017, in Madagascar, tra l’altro prendendo i caratteri allarmanti di peste polmonare».
Le similitudini con Covid-19 appartengono al vissuto e, come dimostra il passo manzoniano, i meccanismi sociali e i condizionamenti culturali che favoriscono la diffusione del virus (Sars-CoV-2) o del batterio ( Yersinia pestis) presentano sconcertanti analogie. Anche sul tema dell’untore. «Nell’antica Grecia, per esorcizzare un’epidemia, si individuava uno straniero a cui attribuire la colpa e, in mancanza di questo, un cittadino deforme, inviso, diverso, da buttar fuori dal villaggio o peggio. È il pharmakòs, il capro espiatorio biblico personificato in un presunto colpevole da sacrificare. Il rimedio, accezione che poi viene estesa alle sostanze curative, ma anche, con lo stesso termine, ai veleni. L’attitudine a negare con forza ogni responsabilità per una malattia infettiva attribuendola ad altri è dura a scomparire, anche ai giorni nostri, quando pochi sono disposti a considerare una malattia come una punizione divina da deviare lontano da sé».
L’esperto analizza pure i rischi futuri derivanti dai virus: «I fondi del Recovery plan sono una grande opportunità per adeguare ospedali e protocolli. Ma bisognerà cambiare il nostro rapporto con la natura»
Evidentemente, non sta parlando lo storico, ma il protagonista di tante polemiche e scontri televisivi (e non). Massimo Galli ha un conto aperto con i negazionisti-riduzionisti e con i no vax. Definisce i primi 'subcultura' e ritiene che i colleghi che li supportano agiscano più per 'appartenenza' politica che su basi scientifiche. Con i politici ha qualche sassolino da togliersi. «Personalmente, ho sperimentato difficoltà significative quando si è insediato il primo governo cinque stelle. Allora la componente scettica nei confronti dei vaccini era forte, al punto da influenzare la formazione delle commissioni tecniche. Non è che uno se le dimentica queste cose…». Comunque «a luglio ho compiuto settant’anni e a novembre andrò in pensione». Come previsto, certo, ma fa impressione ugualmente; riesce difficile pensare a quest’Italia pandemica senza Massimo Galli. Il quale ha ancora molto da dire e lo dice. Ad esempio sui vaccini. «Si sostiene che con due dosi c’è una copertura del 90% contro il virus ma non è così – spiega – perché quella è la regola ma poi ci sono tutti i casi particolari, i pazienti molto anziani che esprimono una immunosenescenza, chi fa chemioterapie importanti, o terapie immunosoppressive, per non dire della vasta platea di persone affette da malattie autoimmuni. C’è troppa semplificazione in questa campagna vaccinale». L’uomo di scienza smonta la narrazione governativa: «Chi ha fatto il Covid, e sono forse sei milioni di persone, e ha ancora anticorpi, non dovrebbe fare il vaccino – spiega –; spesso, forse, neanche una dose. Ed invece gli si impone di vaccinarsi per ragioni più che altro burocratiche, perché altrimenti niente Green pass. Mi pare eticamente insostenibile e scientificamente scorretto ».
Parere autorevole quanto spesso inascoltato, il suo. «Quelli come me li ascoltano quando serve e comunque poco, se non pochissimo. Io credo di essere stato sopportato, magari temuto ma di certo non sempre ascoltato da molta parte della politica, in questa pandemia. La gente, però, è un’altra cosa ». Ruvido, ma non insensibile. Soprattutto allorquando ricorda gli sforzi fatti dal suo staff per interrompere l’incubo di malati e famiglie con una videochiamata, nelle ore in cui tutto sembrava perduto e il ricovero, per molti, era un viaggio di sola andata. «In questo reparto non abbiamo mai perso il controllo della situazione, perché siamo preparati a gestire le emergenze infettive. Almeno dal 2003, quando esplose la Sars, e poi ancora nel 2014 con Ebola. In altri reparti ci sono stati casi di burnout, del tutto fisiologici tra professionisti che non si confrontano quotidianamente con questo tipo di malattie, ma non tra i miei medici, i miei infermieri e i miei oss». Fuori dal padiglione 56 vive la Milano di sempre, che sembra quella di prima. Sono lontane le polemiche al calor bianco tra Regione Lombardia e Governo Conte, che coinvolsero anche il Sacco – «ne parlerò forse dopo la pensione», afferma –, e oggi i pazienti si contano in poche decine ove pochi mesi fa erano centinaia, ricoverati in tutto l’ospedale. La pressione si è allentata, variante Delta permettendo. Anche se avanzano le minacce di sempre. «È stato previsto che le infezioni da microrganismi multiresistenti nel 2050 supereranno gli stessi tumori come causa di morte. Pensiamo a infezioni banali da Escherichia coli, da klebsiella e da altri batteri diventati resistenti agli antibiotici… Si muore già, e molto, di tutto questo, ma la cosa non è sotto i riflettori.
È soprattutto un grande problema di gestione ospedaliera. I fondi del Recovery plan sono una grande opportunità per adeguare strutture e protocolli ed educare il sistema a un corretto utilizzo dei farmaci antimicrobici». Come fermare i 'nuovi' virus? «Fondamentale cambiare il nostro rapporto con la natura – è la risposta –. Solo nei pipistrelli (ce ne sono più di 1.400 specie) alberga un’enorme quantità di virus sconosciuti o già tristemente famosi, come l’Ebola o i coronavirus. Di coronavirus, in particolare, esistono molte altre specie per le quali non può essere esclusa una pericolosità per l’uomo. Ma queste sono altre storie che spero di non dover raccontare mai».