Luca Jahier
L’economia sociale, che in Italia va sotto il nome di Terzo settore e grazie alla maggioranza di governo sta sopportando una campagna di diffamazione senza precedenti (la «mangiatoia», il «business della solidarietà») e vari ostacoli politici, appena varcate le Alpi gode di stima e buona salute. È un comparto che ha retto la crisi ed è parte della ripresa in Europa (in Italia no, non c’è). Lo conferma Luca Jahier, classe ’62, torinese, una vita nell’associazionismo cattolico. Prima nel campo della cooperazione internazionale, fino a diventare presidente della Focsiv. Dopo numerosi incarichi internazionali nelle Acli è entrato nel 2002 nel Comitato economico sociale europeo (Cese), organo consultivo dell’Ue che rappresenta le organizzazioni dei lavoratori e dei datori, fino ad assumerne un anno fa la guida.
Che valore ha oggi in Ue l’economia sociale?
In questi ultimi anni un peso sempre più rilevante. Alla fine della scorsa legislatura, nel 2014, ha conseguito il picco più alto del riconoscimento nelle politiche europee con finanziamenti e direttive ad hoc e soprattutto con la decisione di riservare il 25% dei fondi di coesione sociale legandoli all’innovazione e ai servizi del Terzo settore. Nessuno Stato membro ha mai riservato questa priorità di spesa dei fondi sociali al Terzo settore, ancor meno l’Italia che sta sotto l’1%. I soggetti di Terzo settore e impresa sociale sono sempre più valorizzati.
Perché l’Ue ha adottato questa strategia?
Per tre motivi. Primo, un riconoscimento esplicito e positivo da parte di sindacati, imprese e politica della diversità delle forme di impresa, espressione di ricchezza e vitalità. Secondo, negli anni della crisi l’economia sociale è stata uno dei soggetti che ha resistito di più e meglio: addirittura sono cresciute numero di imprese e posti di lavoro. Tra il 2008 e il 2014, anni cruciali della crisi, l’occu- pazione è cresciuta del 40% nel Terzo settore europeo. Oggi ci sono 15 milioni di europei che lavorano nell’economia sociale. È uno dei quattro settori, insieme al digitale, alla cultura e alle energie rinnovabili, dove c’è stata maggiore crescita nel periodo di distruzione dell’occupazione. E dei 12,8 milioni di nuovi posti creati dalla ripresa in Ue, oltre un quarto viene dal Terzo settore.
E il terzo motivo?
È il nodo vero. Di fronte alle sfide imposte dalla trasformazione del Welfare state, dall’esplosione del debito e dalla domandi di servizi, senza un crescente ricorso alla creatività e alla diretta implicazione delle forze locali e dell’economia sociale l’offerta di servizi nella rete di protezione più avanzata del mondo non avrebbe retto.
Ma che senso ha metterne in discussione i valori in Italia?
In Italia è folle metterlo in discussione tanto è forte, strutturato e innovativo. Cercare di distruggerlo è una missione impossibile. Molto più intelligente sarebbe cercare di farne un alleato per il cambiamento di un Paese fermo da 20 anni. Rinunciare invece alla sua forza creativa, innovativa, e alla capacità di organizzare territori, mobilitare risorse, dare risposte anche alla disoccupazione e costruire innovazione, come dice la sua storia originalissima, è incomprensibile. Ma chi pensa di ammazzarlo, in Italia, ha sbagliato i conti. Il Terzo settore ha una tale tradizione e ha attraversato tante vicende ben prima dello Stato unitario e della democrazia, che passerà anche questa. Questi attacchi sono una perdita di tempo e di energie contro il bene del Paese.
Forse lo si considera forza di opposizione.
È un mondo autonomo e critico nei confronti dei governi per definizione, ma non è un antagonista. Non è omologabile, mantiene una sua pluralità: perciò è scomodo nei Paesi che vanno verso le 'democrature', democrazie autoritarie come l’Ungheria. Ma di per sé è un alleato delle politiche di futuro.