A scuola d'italiano - Collaboratori
Il paradosso di Monfalcone, che ha paura degli stranieri e ne ha bisogno per vivere, è tipico di questo cambiamento d’epoca. Ma in terra isontina rischia di trasformarsi in un conflitto lacerante sul fondamentale diritto di pregare.
Protagonisti di quello che media internazionali come Financial Times e Guardian hanno presentato come un caso di discriminazione religiosa ed etnica sono i cittadini bangladesi musulmani - un terzo circa dei monfalconesi - e la sindaca leghista Anna Maria Cisint, primo cittadino dal 2016, che li accusa di rifiutare l’integrazione, di avere imam che predicano l’islamizzazione e di praticare la repressione femminile con il velo integrale, la segregazione e i matrimoni combinati con spose bambine.
Attiva su media nazionali e social, Cisint ha stravinto le elezioni del secondo mandato del giugno 2022 con il 72%, anche se metà degli elettori ha disertato le urne. Persino una parte della comunità “bangla” l’ha votata per aver aperto quattro scuole primarie. La tensione è esplosa a novembre, quando la sindaca ha chiuso con un’ordinanza per abusi edilizi due centri culturali islamici dove andava a pregare la comunità.
Il 10 febbraio il Tar ha sancito che la preghiera va consentita anche se si tiene in una zona centrale, residenziale e commerciale, ma va regolamentata dal Comune per garantire sicurezza. Le associazioni islamiche faranno ulteriore ricorso al Consiglio di Stato e a meno di tre settimane dall’inizio del Ramadan il 10 marzo, un diritto costituzionale non può venire esercitato.
Per capire la trasformazione di Monfalcone in realtà complessa, partiamo dalla chiesa cattolica vicina al motore dell’economia locale e dei mutamenti, i cantieri navali nati oltre 100 anni fa. «Che hanno attirato in 25 anni 1.700 lavoratori dal Bangladesh - commenta dal convento della Beata Vergine della Marcelliana, fra’ Roberto Benvenuto, cappellano di Fincantieri e responsabile della pastorale sociale della diocesi di Gorizia -. La catena migratoria si è innescata a inizio secolo col pensionamento dei vecchi lavoratori di Fincantieri, soprattutto napoletani e l’arrivo dei bangladesi per sostituirli. La storia di invasioni e guerre spiega la diffidenza mostrata dai bisiachi verso gli stranieri. Inoltre, a differenza di un secolo fa quando arrivarono operai fin da Gallipoli, non si è pensato a integrare i nuovi arrivati».
La comunità bangladese si è poi moltiplicata in fretta grazie alla legge Bossi-Fini, che prevede assunzioni dall’estero, e con i ricongiungimenti famigliari. Ma con le braccia, come si dice, sono arrivate persone e, su quasi 31mila abitanti, circa 9mila sono di origine bangla che mandano i guadagni in patria. Il Bangladesh è da anni al primo posto nelle destinazioni delle rimesse dall’Italia. Per venire assunti molti pagano 20mila euro alle aziende subappaltatrici e dell’indotto dei connazionali. Il debito si salda nei primi anni, arrangiandosi a Monfalcone in alloggi sovraffollati e con paghe da cottimisti nella galassia della cantieristica navale. Poi si fa arrivare la famiglia e chissà se le nuove generazioni resteranno.
«Sono arrivato in Italia 18 anni fa per ricongiungermi a mio padre operaio - racconta dal suo money transferRejaul Haq, 36 anni, presidente di uno dei due centri culturale islamici chiusi - e oggi sono imprenditore. Mai ho avuto problemi di integrazione, considero Monfalcone la mia città». E le accuse del sindaco? «La preghiera si svolge in centri che ci siamo pagati da soli, se ci sono problemi discutiamone. Ma non può chiuderli. Ci dica chi predica la violenza e la sostituzione etnica o quali famiglie organizzano i matrimoni con spose bambine, reato anche nel nostro Paese. Siamo i primi interessati a saperlo. Non ci ha risposto. Troppi alunni “bangla” nelle scuole? Molti sono nati qui e parlano italiano e noi facciamo doposcuola nei centri. E se ci fosse una legge che proibisse di girare a volto coperto, ubbidiremmo».
Il cantiere navale Fincantieri a Monfalconi in un'immagine d'archivio. I migranti sono necessari all'economia della città - Fotogramma
Nel centro culturale Darus Salaam in via Duca d’Aosta l’ingegnere di origine senegalese Bou Konate, portavoce della comunità ed ex assessore ai Lavori pubblici, ci accoglie nell’ampio locale dove il Tar ha stabilito che si può pregare, ma non in quanti. Si tengono anche attività di doposcuola.
«La sede è attiva dal 2003, mai avuto problemi. La sindaca aveva mandato per mesi la polizia locale a contare quanti venivano alla preghiera. A gennaio i vigili sono entrati a identificare i presenti, sia gli adulti che stavano facendo attività di doposcuola che i bambini. Gravissimo. Siamo disposti a pregare a turni se ci sono problemi di sicurezza».
Durissima l’opposizione di centro sinistra. «Anna Maria Cisint non è il sindaco solo di chi l’ha votata, ma di tutti i cittadini - afferma la consigliera della Sinistra, Cristiana Morsolin - e continua ad accusare senza prove. Ha colpito il diritto di culto previsto dalla Costituzione. Prima c’era stato il “caso cricket”, praticato dalla comunità del Bangladesh ed escluso dalla festa dello sport cittadino. E gli ostacoli all’iscrizione dei non italofoni alle scuole mandandoli in altre città. Insomma non vuole i bangladesi e si fa propaganda. Forse per candidarsi alle Europee». Voce smentita da Cisint.
Italiani e “bangla” vivono di fatto separati. Stesse vie, stessi ambienti, mondi paralleli. Di giorno girano diverse donne velate, anche a volto coperto e nella piazza principale i migranti parlano in piedi perché sono state tolte le panchine nel 2017. Uno dei rari costruttori di ponti tra le comunità è Arturo Bertoli, presidente dell’associazione Ami, che tiene corsi di italiano. «La comunità islamica non è monolitica, vengono da città diverse del Bangladesh e dalle campagne, spesso da ceti sociali diversi anche all’interno della stessa famiglia. Col tempo si integrano, ma il Comune deve essere attore del processo». Ami tiene corsi agli adulti e corsi di sostegno nelle scuole agli allievi arrivati per ricongiungimento e messi in classe con i coetanei senza conoscere la nostra lingua.
«A costo zero per le casse municipali - puntualizza Bertoli -. Le comunità di migranti balcanici e i romeni imparano in fretta. Per quelli del Bangladesh è più complicato, ma diversi arrivano a chiedere la cittadinanza. Non è vero che le donne non lavorano, come afferma il sindaco, ne conosco diverse impiegate nel commercio, turismo e sanità».
Chi ripete di voler superare il muro contro muro è il parroco del centro città, don Flavio Zanetti, che con il confratello don Paolo Zuttion si è espresso a favore della libertà di culto. «Conoscerci aiuta a capirci per non trasmettere paure inutili. Dobbiamo vivere insieme in pace. Se il problema è il sovraffollamento, bene che venga impedita la preghiera per la sicurezza. Ma gli islamici hanno diritto di pregare in luoghi consoni rispettando le norme. Noi cattolici sosteniamo la libertà religiosa».
Preoccupato per le conseguenze sui giovani che si vedono precluso il diritto di pregare, è un osservatore attento come l’educatore di strada Denis Fontanot, che insegna religione nell’istituto professionale cittadino. «Dove frequentano molti ragazzi stranieri che si confrontano - spiega -. Kosovari, macedoni e i “bangla” hanno un forte senso della famiglia e una identità divisa tra la terra d’origine e l’Italia. Sempre che non si gli neghino i diritti fondamentali».
Preoccupato anche il presidente di Ascom Roberto Antonelli. «Occorre convocare un tavolo nazionale con tutti gli attori per risolvere il caso. Non si può continuare così, i corsi di italiano per integrare i bangladesi li facciamo noi. Tra i 500 alloggi acquistati e in affitto e i consumi, ho calcolato che sul territorio gli immigrati impieghino 50 milioni. Se si trasferissero, che futuro avremmo?». Il mutamento non si ferma, arrivano nuovi cantieri da Vietnam e Filippine mentre il decreto flussi 2024 include i lavoratori subordinati non stagionali dal Bangladesh. Alla città cantiere servirebbero tempo e calma per diventare laboratorio di convivenza.