Abbiamo poco tempo. Andiamo tutti di fretta e dobbiamo (vogliamo?) fare tante cose, a volte anche tutte insieme. Sul web, poi, leggiamo poco. Per diversi motivi. Innanzitutto per pigrizia e/o fretta. In Italia, secondo l’ultimo rapporto Audiweb, passiamo meno di 1 ora al mese sui siti di informazione. Sono quasi 2 minuti al giorno. Una cifra irrisoria. Sempre per pigrizia e/o fretta, la stragrande maggioranza delle persone «on line» non arriva alla fine di un articolo sul quale ha cliccato. Scriverlo fa male. Ma è così. Ed è inutile fare finta di niente.
Quando siamo nel digitale decidiamo in meno di 6 secondi se un articolo è giusto o sbagliato. E sui social in meno di tre se vale la pena cliccare su un titolo o passare oltre. Sempre sui social oltre il 40% degli utenti commenta un post senza averlo letto, ma in base al titolo, alla foto o ai commenti precedenti lasciati dalle altre persone. Basta un commento fuori contesto (spesso lasciato apposta dai cosiddetti troll, cioè da persone che si divertono a scatenare risse sui social) perché le persone smettano di discutere dell’argomento trattato nel post, per spostarsi sul nuovo argomento. Anche chi commenta in buona fede spesso cade in qualcosa di simile, denominato «benaltrismo».
Per esempio, se un post tratta la fame in Africa arriva sempre il commento: «e i poveri italiani? ». E così via. Non c’è argomento che non generi un commento del tipo: «perché non parlate di...». Solo che se c’è sempre «altro», alla fine non ci si confronta su niente. Si litiga. Come nelle assemblee condominiali dove, mentre si sta parlando di rifare la caldaia condominiale, qualcuno interviene e dice: è la spazzatura? E tutti cominciano a urlare e a offendersi.
La colpa non è solo dei social. Ma di oltre 20 anni di talk show televisivi dove lo scontro, l’offesa e la rissa sono stati e sono all’ordine del giorno. Restare nascosti dietro un profilo magari falso, toglie poi ogni inibizione, facendo emergere il peggio delle persone. In questo senso i social non sono un’altra realtà, ma uno specchio della realtà forse più fedele di quello che vediamo in giro, perché fanno emergere anche quell’odio che nei rapporti quotidiani alcuni spesso nascondono dietro facce di circostanza. Tutti, soprattutto sui social, vogliamo partecipare e (giustamente) dire la nostra, su ogni argomento. Ma non facciamo i conti con le insidie, tecnologiche e non, che ci circondano.
Per non parlare del fatto che, secondo l’Ocse, 11 milioni di italiani si informano solo sui social, attraverso testi brevi, perché non sono in grado di comprendere correttamente testi più lunghi di 700 caratteri. Sono soprattutto pensate per loro le immagini social con slogan di denuncia e la scritta: «condividi se sei indignato». Se sono veri o meno, non interessa a chi le confeziona. Sono utili. E fanno arrivare un messaggio semplice: questo, quello, quelli sono i tuoi nemici. E i commenti sui social? Una fetta di coloro che commentano non sono nemmeno reali. Sono profili inventati ad arte e «pilotati» come burattini da sistemi informatici. Così, ci convincono che la «massa», il «popolo» la pensa soprattutto in un certo modo, spingendo i più ad accodarsi alla «maggioranza rumorosa» e allontanando la «maggioranza silenziosa» che si trova a disagio davanti a risse ed eccessi verbali. Algoritmi, bot e strategie degne di Goebbels finiscono così a orientare una parte delle persone.
Ma ciò che non ci fa crescere nel dibattito e nella comprensione della realtà è il «nemico» più pericoloso che possa esserci: noi stessi. Nessuno escluso. Colpa dei «bias cognitivi». Cioè, dei «malfunzionamenti » del nostro cervello che ci portano a errori di valutazione e/o alla mancanza di oggettività di giudizio. Ce ne sono a decine. Il più attivo e distruttivo sui social è il «bias di conferma». È quello che ci spinge a dare maggiore rilevanza alle sole informazioni in grado di confermare la nostra tesi iniziale (o il nostro pregiudizio), ignorando o sminuendo quelle che la contraddicono. «Se abilmente sfruttato – come spiega bene Wikipedia – è uno strumento di potere sociale, in quanto può portare un individuo o un gruppo a negare o corroborare una tesi voluta, anche quando falsa». Il «bias del carro della banda del vincitore» (bandwagon bias) ci spinge invece a sviluppare una convinzione, non basandoci tanto sul fatto che sia vera, quanto piuttosto in relazione al numero di persone che la condividono.
Per questo è così facile, da sempre, anche prima dei social, ingannare le persone. Per questo non siamo disposti a riconoscere che anche chi non la pensa come noi possa avere ragione. Per questo non esistono più gli esperti ma soltanto i «miei esperti», cioè coloro che mi danno ragione e che corroborano i miei pregiudizi. E chi non la pensa come me è per forza un «nemico», un «bufalaro», uno che fa parte di orribili complotti.
Nel giro di pochi anni siamo passati dalla massima attribuita a Voltaire («Non sono d’accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo», che in realtà è di una sua geniale biografa Evelyn B. Hall) a «non ho letto quello che scrivi e non so cosa dirai, ma sono già che è falso. Quindi, stai zitto». E così facendo ogni giorno ci chiudiamo sempre di più nelle nostre (spesso errate) convinzioni.