Cesare Mirabelli è presidente emerito della Corte Costituzionale, avvocato e già docente di diritto ecclesiastico (Università di Parma, di Napoli e di Roma Tor Vergata) e di diritto costituzionale (Pontificia Università Lateranense) - Archivio Avvenire
«Dubbi? Eh sì, ne ho tanti ma non mi sembra corretto esprimerli prima di aver fatto una premessa che considero irrinunciabile». Cesare Mirabelli, presidente emerito della Corte costituzionale e giurista attento all’evoluzione del pensiero, si ferma un attimo tenendo tra le mani l’articolato della legge sull’omofobia licenziata dalla Camera il 4 novembre scorso.
«Riflettere con serenità e apertura al dialogo su questa legge così delicata – spiega – non può essere inteso in alcun modo come volontà di mettere in discussione la dignità e la tutela di ogni persona. Anzi, mettere in luce i punti critici di una legge significa collaborare per rendere ancora più incisivo il dovere della tutela che si deve ad ogni persona. E come credenti sappiamo che ogni donna e ogni uomo è creatura, immagine e somiglianza di Dio e che tutti sono stati amati e sono amati da Cristo nella loro condizione».
Ma professore, chi può immaginare che discutere di questa legge significhi ignorare il dovere di tutelare ogni persona, specialmente quelle più deboli e fragili?
Nessuno spero, ma ci tenevo a ribadire che ogni nostra considerazione è ispirata a un sentimento di attenzione per gli altri.
Quindi, entrando nel merito dei vari articoli, cosa non la convince?
Innanzi tutto una considerazione di carattere generale. Mi chiedo se una legge che si propone prevenire ogni forma di violenza lesiva della dignità, dell’integrità e dell’onorabilità, ma anche dell’immagine di ogni persona senza alcuna distinzione, debba per forza creare una categorizzazione. Non rischiamo di determinare una separazione, di creare nuove minoranze? È un dubbio, riflettiamoci.
Parlando di categorizzazioni si riferisce all’articolo 1 della legge, con le definizioni su sesso, genere, orientamento sessuale e identità di genere?
Capisco che le definizioni sono necessarie per uscire dall’incertezza dei contenuti a proposito delle descrizioni delle norme punitive introdotte. Ma mi chiedo se usare sul piano normativo definizioni discusse sul piano scientifico e antropologico – mi riferisco in particolare all’identità di genere – sia una strada opportuna.
Il concetto di identità di genere è presente in numerose sentenze della Cassazione e della Corte costituzionale. Anzi, la 15138 del 2015 ha spiegato che l’acquisizione di "una nuova identità di genere non postula la necessità" di un intervento chirurgico. Quindi la legge Zan, spiegando che il concetto di identità può essere applicato "indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione" non ha fatto altro che adeguarsi al dettato della Consulta.
Sotto il profilo giuridico sì, ma una sentenza non è un dato scientifico. E il significato antropologico della definizione appare tuttora dibattuto. Forse si poteva seguire un’altra strada. Per esempio richiamando la necessità di assicurare la tutela di ogni soggetto vulnerabile, senza categorizzazioni. Ne abbiamo già parlato su Avvenire (intervista del 3 luglio scorso LEGGI), ma mi sembra opportuno ribadirlo. L’introduzione di un’aggravante specifica per tutti i reati lesivi della dignità e dell’integrità della persona si sarebbe potuta ottenere intervenendo sull’articolo 61 del codice penale. Sarebbe stato un percorso meno traumatico.
Ma al di là di questo, ritiene che nell’articolato della legge esista ancora il rischio di colpire la libera espressione delle idee?
Ci sono due punti che non mi convincono. La lettera "d" dell’articolo 2 della legge Zan che modifica l’articolo 604-bis del codice penale, parla di "propaganda di idee" ma attualmente l’articolo 604 bis fa riferimento alla "propaganda e istigazione a delinquere". La propaganda è ancorata al delinquere. E giustamente va repressa. Adesso invece si fa riferimento all’idea, vien meno il raccordo necessario con l’istigazione.
E questo diventa un problema?
Certo, un’idea va contrastata con un’altra idea, non con lo strumento penale. Qui il rischio è appunto la libertà di manifestazione del pensiero. Facciamo un esempio. La pubblicazione di un testo scientifico che sostiene la natura patologica dell’omosessualità, per rimanere in argomento, può essere diffuso e può propagandare quelle teorie. Oggi questa posizione dal punto di vista scientifico è ritenuta insostenibile, quindi può essere contrastata ma non può essere sanzionato penalmente chi la diffonde. Ecco perché siamo su un crinale a rischio.
Sui pericoli per la libertà di pensiero aveva parlato di due punti critici. Qual è l’altro?
È l’articolo 4, appunto il cosiddetto "salva idee". Si dice che "ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atto discriminatori o violenti".
Cosa non la convince?
L’espressione "purché non idonee". È assai debole. Ancora una volta riguarda il pensiero, sganciato dalla intenzione, dal tempo e dal contesto. Sarebbe stato opportuno scrivere: "purché non dirette a determinare il concreto pericolo…". Non si può usare il concetto di "idoneità" nella valutazione di un’idea, chissà quando, come e per quale finalità espressa, e trasformare quella idea in un reato penale.
Fa molto discutere anche l’articolo 7 che coinvolge le scuole nella celebrazione della Giornata contro l’omofobia. Opportuno parlare di aspetti educativi in una legge penale?
Promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione, ripeto, va benissimo. Ma parlare di libertà e di uguaglianza delle persone non dovrebbe essere limitato a poche categorie. Le discriminazioni e le violenze nei confronti dei poveri, dei senza tetto, dei "semplici", dei deboli, non vanno represse in modo eguale? Non vorrei che fosse una porta di ingresso per un’educazione di Stato a senso unico.
Insomma, il Senato avrà molto da lavorare per limare questi passaggi a rischio?
Credo che sia davvero il caso di rivedere attentamente questo testo per evitare le derive a cui abbiamo accennato. E spero che ci sia questa disponibilità, che non ci si chiuda in una difesa ideologica, che una possibilità di serio approfondimento e di dialogo rimanga aperta. Del resto questa è la funzione del Parlamento.