domenica 21 giugno 2009
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Se quarant’anni fa fosse stati a Woodstock non ci avreste trovato nulla. Né il rock né l’utopia hippy. Né la tre giorni di « pace, amore e musica » né i 500mila ( ma c’è che dice fossero persino di più) che invasero il Festival più popolare della storia della musica. Woodstock, il « mitico Woodstock » di cui parlano su internet 24 milioni e 200mila pagine, non si tenne lì, ma nella cittadina rurale di Bethel, nella contea di Sullivan, a 69 chilometri di distanza. Cosa che fece tirare un bel respiro di sollievo a Bob Dylan, che in quel periodo abitava nella cittadina di Woodstock, e che – raccontano – « era un bel po’ infastidito dalla confusione che si stava creando intorno a casa sua » . Fu per questo, sostengono i maligni, che rifiutò di partecipare al festival. Il motivo ufficiale fu però un altro: aveva un figlio malato. Diciamolo subito: entrare nella storia di Woodstock è come affrontare una leggenda che cambia i contorni a seconda degli occhi che la raccontano. Per alcuni fu l’apoteosi della controcultura giovanile americana; l’ultimo atto del sogno hippy. Per altri fu un’eccellente occasione per sentire grande musica. Eppure è difficile negare che fu anche un raduno caotico dove la fecero da padrone la droga e la trasgressione, e dove igiene e pulizia furono bandite per oltre 72 ore. Un mondo caotico dove si racconta che ci furono anche due nascite e quattro aborti spontanei. Una cosa è certa: i media, che allora non si occupavano quasi né di giovani né di rock, lo snobbarono quasi del tutto. O meglio: si concentrarono solo sui disagi alla circolazione che l’arrivo di quel fiume di persone portò in tutta la contea. Per un giorno e mezzo a Woodstock, dentro il festival, ci fu un solo giornalista, Barnard Collier. E non si è mai capito bene se fosse stato mandato lì dal New York Times per il quale lavorava o se ci fosse andato per interesse personale. « Quando chiamai la redazione mi dissero che dovevo raccontare il festival insistendo sul caos prodotto dall’evento, ma io dicevo loro che trovavo incredibile che una tale massa di C gente stesse partecipando ad un simile riunione in maniera così pacifica » . Collier era solo. La sua penna e i suoi occhi per 36 ore furono quelli del mondo. Ma lo spazio sul giornale per le sue cronache fu molto scarso. Così, a raccontarci Woodstock resta il film di Michael Wadleigh, aiutato da un giovanissimo Martin Scorsese, che fece il lavoro più grosso e in cambio non fu nemmeno menzionato nei titoli originali della pellicola. Peccato che si tratti di un bel documentario musicale che però non scava per niente nell’aspetto sociologico e politico dell’evento. osì Woodstock resta una leggenda. Un aquilone colorato e rumoroso che portò in tutto il mondo la cultura hippy americana ma finì al tempo stesso per annacquarla e di fatto per ucciderla. Comunque la si pensi in merito, una cosa è innegabile: fu un evento. Diventato gigantesco solo con il passaparola. Nato come un festival di provincia, un « Aquarian Exposition » come l’avevano chiamato i suoi due giovani organizzatori per sottolinearne il carattere marginale, si trasformò nel più grande raduno rock del mondo. Erano attesi al massimo in 50mila, ne arrivarono dieci volte tanto e forse più. Un fiume di giovani che per tre giorni non si lasciò abbattere dalla pioggerellina che accompagnò buona parte delle esibizioni, anzi. Il fango, che ben presto ricoprì la conca di 2,4 chilometri quadrati affittata per il festival a 75mila dollari, divenne per quei ragazzi un’occasione di gioco; un alleato « ai loro gesti di ribellione » . Alcuni si rotolavano nel fango, altri si lavavano nel vicino stagno Filippini. Sul palco, intanto, per colpa di quella pioggerellina i musicisti prendevano scosse a non finire. Da Richie Havens, che apri il festival alle 17.07 di venerdì 15 agosto 1969 a Jimi Hendrix che lo chiuse ( fuori tempo massimo) alle nove di mattina di lunedì 18 agosto, davanti a sole 80mila persone, visto che tutti gli altri erano già tornati a casa, in quei tre giorni si esibirono in trentadue. Quasi tutto il meglio del meglio del rock del momento. Solo per citare i nomi più amati ancora oggi, Santana, Joan Baez, Janis Joplin, Grateful Dead, The Who, Credence Clearwater Revival, Joe Cocker, The Band, Jefferson Airplane, Crosby, Stills, Nash & Young. Grandi assenti – fra i grandi artisti contattati dagli organizzatori – furono Beatles, Led Zeppelin, Procul Harum, Bob Dylan, Doors, Frank Zappa, Jethro Tull e Joni Mitchell. Quest’ultima, ironia della sorte, poco dopo scrisse la canzone Woodstock, proprio dedicata all’evento. ggi, a 40 anni da quell’agosto 1969, Woodstock è più che mai un suono. Una parola a metà tra sogno e soldi. Capace di evocare utopie antiche e di far nascere una linea di prodotti ( dagli asciugamani da spiaggia alle mutande) col logo del Festival; di far spuntare nuovi film ispirati all’evento ( come quello di Ang Lee passato a Cannes) e di far uscire decine e decine di libri commemorativi. Il kit coi ricordi di Woodstock ( volantino, placca commemorativa e foto) viene venduto su internet a 149 dollari, il poster del festival a 199 dollari. « Woodstock è la prova che un mondo più pacifico, giusto e altruista è possibile, ieri come oggi » sostengono i due organizzatori di allora. Peccato che in questi 40 anni non si siano quasi più parlati. Per questioni di soldi, ovviamente.
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