Wole Soyinka nel 2015 in Brasile in occasione di un incontro della Comissão de Direitos Humanos e Legislação Participativa (CDH) - Flickr/Geraldo Magela/Agência Senado/CC-by-2.0
Anticipiamo un brano tratto dalla nuova raccolta di saggi di Wole Soyinka, Il fantasma di Cassandra (traduzione di Cristiano Screm, Jaca Book, pagine 192, euro 20,00, disponibile in ebook). Il volume fa parte della serie Del potere e della libertà, all’interno della quale lo scrittore nigeriano – primo autore africano a ricevere nel 1986 il premio Nobel per la letteratura – sta riordinando le proprie riflessioni degli ultimi anni.
Col ferro e col fuoco! Questo il grido onorato dal tempo, che annuncia la nascita o sigilla la sorte di questa o quella civiltà per mano di invasori – siano essi visionari avventurieri destinati a lasciare la loro impronta duratura, oppure orde barbariche che si limitano a spazzare via ogni cosa, saccheggiando e lasciandosi dietro nient’altro che rovine, e costringono le loro vittime ad andare in cerca di dimore nuove e più sicure, spesso tra alte e impenetrabili colline, regredendo così a modalità di esistenza rudimentali e da lungo tempo accantonate, semplicemente per sopravvivere.
Talvolta sono presenti entrambi gli elementi, in proporzioni variabili. Così – se vogliamo essere perfino più generosi dello storico arabo Ibn Khaldun – possiamo definire la natura dell’interazione culturale tra le popolazioni berbere della fascia nordafricana oggi nota come Maghreb e le ondate di bellicosi visitatori beduini che vi giunsero a partire dal VI secolo dalla Penisola arabica. All’altro capo del continente, l’incontro tra regni africani e invasori europei presenta modalità analoghe. Altre parti dell’Africa narrano una vicenda diversa. Si direbbe che nella maggior parte dei casi, le civiltà che oggi rivendicano la titolarità di questo termine siano state edificate sulle macerie di altre civiltà, e quasi mai attraverso un rapporto complementare o una simbiosi pacifica.
Il passato dell’Africa conta qualcosa? Vale la pena di valutare la posizione di questo continente nella scala delle conquiste dell’umanità? L’essere umano ricava un conforto alquanto irrazionale dall’entrare in contatto con il passato in una dimensione tangibile, specie quando sta in piedi tra i resti materiali di quel passato.
È facile notare come la gente ami osservare le rovine – è sufficiente visitare le destinazioni turistiche più popolari di tutto il mondo. Le persone si lustrano gli occhi su cumuli di pietre, mattoni, frammenti di ceramica e sbiadite pitture rupestri – ma che cosa si affaccia nelle loro menti? I fantasmi dei personaggi che animarono un tempo questi spazi morti, oppure immagini sostitutive di sé, proiettate in un’epoca ormai scomparsa? Immaginare il creatore di una nazione, il re o l’imperatore significa calarsi, anche solo per qualche istante, nei paramenti e nella panoplia del loro potere. Può significare anche, per una ristretta minoranza, sentirsi ispirati a emulare e ad amplificare, per quanto in piccola misura, le conquiste di quel passato, ponendo la realtà del presente a confronto con esse – ma in ultima analisi, trasformandole in uno specchio in cui si riflette il destino futuro del proprio popolo.
Nel corso di questo processo, tuttavia, nella mente critica si affaccia talora un interrogativo: come hanno potuto coloro che furono capaci di simili prodigi creativi dare sfoggio, nei loro rapporti con altri esseri umani, di tanta crudeltà, trasformandosi in professionisti della disumanizzazione dei loro simili? Certo si trae ristoro dalla contemplazione della bellezza che sovente hanno lasciato dietro di sé; ma si tratta davvero di una compensazione sufficiente, di fronte a ciò che sappiamo riguardo alle modalità con cui questo retaggio umano è stato costruito e ampliato? In breve, che cosa significa esattamente essere «civili»?
È un interrogativo che un continente come l’Africa rivolge sovente al resto del mondo – ma soltanto come reazione alla designazione che il resto del mondo ha voluto imporre a questo continente, una designazione che, malgrado le smentite sempre più numerose, continua a essere forzatamente applicata. È una fortuna per la nostra stabilizzazione morale che queste rovine, nella maggior parte dei casi, suscitino di rado una ricettività estetica ininterrotta in ogni individuo – una ricettività che, nella mente critica, subisce l’assalto del peso della storia di cui quelle rovine sono parte, e di cui talvolta possono essere riconosciute come promotrici.
Naturalmente vi sono delle eccezioni, laddove il dato storico e quello estetico si fondono. In generale, tuttavia, i musei – racchiusi tra pareti o a cielo aperto – sono cosparsi di oggetti che evocano immagini ambigue, dagli anfiteatri romani o inca, riportati alla luce con il loro carico di reperti, ai moderni edifici in vetro e acciaio, che non prenderebbero in considerazione nemmeno per un istante l’ipotesi di poter divenire a loro volta, in futuro, rovine. Vasi decorati, dipinti rupestri, manufatti domestici e religiosi di ogni cultura – e non dimentichiamo i sontuosi ornamenti e statue in oro custoditi nei musei fortificati del Messico, della Colombia, del Perù eccetera: queste eloquenti testimonianze dell’ingegno umano e della ricerca estetica, spesso macchiate dal sangue durante la loro esistenza, non mancano mai di infiammare la mente umana, stimolando un silenzioso dialogo con il passato.
Possono evocare sentimenti contrastanti, che tuttavia producono il medesimo risultato – un senso di rassicurazione di fronte all’evidenza di una continuità creativa. I siti degli scavi veri e propri, anche quelli in cui le prospezioni mirate degli archeologi non hanno riportato alla luce nulla di più sensazionale dei resti di antiche mura, stradine, cunicoli crollati e – paradossalmente – anche tumuli funerari, esercitano sulla maggior parte delle persone un’attrazione singolarmente viscerale.
Tutto ciò può anche evocare il carattere sobrio della transitorietà, ma perlopiù ci trasporta come in volo attraverso le barriere temporali, ponendoci come voyeur alla presenza tangibile di una civiltà che è stata vissuta tanto tempo fa. In questi spazi ora deserti si affollano orde di individui di ogni nazionalità, condizione sociale, religione e professione, ansiosi di lustrarsi gli occhi e di intavolare un dialogo personale con il passato. […]
L’illuminazione, da qualunque fonte provenga, mette alla prova le nostre facoltà critiche. Così come può fermarci mentre stiamo per mettere il piede nel precipizio, la luce può anche accecarci facendoci precipitare nel baratro più vicino. Le glorie del passato possono mettere in guardia i giudiziosi dai mezzi con cui tali glorie sono state realizzate, o al contrario proclamare che l’emulazione è una virtù – un dovere, perfino.
Gli individui che conoscono a fondo la storia della loro famiglia, consapevoli di una tradizione che rese distinti i loro avi, tentano spesso di consacrare questa distinzione famigliare, in molti casi con una dedizione totalizzante, che prescinde dalle inclinazioni personali o dalla consapevolezza delle implicazioni delle differenze di tempo e circostanze.
(Traduzione di Cristiano Screm. © Wole Soyinka e © 2020 Editoriale Jaca Book per l’edizione italiana)