Il busto di Richard Wagner nel Museo Wagner nel Casinò di Venezia - Museo Wagner
Ci sarà il Festival wagneriano di Bayreuth la prossima estate. Dopo lo stop imposto lo scorso anno dalla pandemia, la rassegna voluta da Richard Wagner fin dal 1876 tornerà fra luglio e agosto nella città tedesca della Franconia dove il cantore di Sigfrido ha fatto costruire il “suo” teatro e dove è sepolto nel giardino di Villa Wahnfried in cui aveva trovato pace, come volle venisse scritto sulla facciata. I vertici della kermesse hanno annunciato il programma: in cartellone l’Olandese volante (sul podio per la prima volta una donna, l’ucraina Oksana Lyniv), i Maestri cantori, Valchiria, Parsifal (ma solo in forma di concerto diretto da Christian Thielemann) e due concerti con Andris Nelsons. Scongiurata l’ipotesi di un nuovo rinvio, dal golfo mistico riprenderanno a salire le note delle imponenti partiture che, tedesche fin nelle biscrome, hanno però un’impronta anche italiana. Perché la “stella del Nord” le concepì e le compose (in una buona parte) nel Belpaese che è entrato anche a pieno titolo fra i suoi dati biografici: infatti a Venezia il rivoluzionario del pentagramma è morto il 13 febbraio 1883. Una targa lo ricorda all’ingresso di quello che al tempo del compositore era soltanto Palazzo Ca’ Vendramin Calergi sul Canal Grande e oggi è per lo più noto come il Casinò. Al suo interno accoglie il Museo Wagner con ancora la scrivania su cui il maestro esalò l’ultimo respiro.
Amava l’Italia il padre della “musica dell’avvenire”. O almeno visitarla e sostarci anche per lunghi periodi, come nella migliore tradizione germanica dei viaggi al di sotto delle Alpi testimoniata – per citare due nomi – da Goethe o Mendelssohn. Tanto che accarezzò persino l’idea di trasferirsi nella Penisola ma poi l’abbandonò. Un po’ meno gradiva la musica che aveva qui le sue radici. Definì l’opera italiana «una prostituta». Parlò senza mezzi termini di «decadenza del gusto artistico italiano» dopo aver ascoltato una «meschina opera» alla Scala di Milano. Non apprezzava neppure assistere ai suoi lavori messi in scena lungo lo Stivale soprattutto per le mutilazioni che subivano: era stato presente a Bologna a una rappresentazione di Rienzi nel 1876 e Leoncavallo descrisse la «smorfia di disgusto» del genio romantico durante lo spettacolo ma anche il suo grido «Più lento, più lento» quando una banda gli rese omaggio suonando un frammento di Tannhäuser sotto le finestre della camera.
La targa che alla Spezia ricorda l'intuizione del preludio dell'"Oro del Reno" di Wagner - Wikipedia
Eppure il nostro Paese lo ha ispirato a profusione, come mostra il volume L’elmo di Lohengrin (Manzoni editore; pagine 352; euro 27), a cura di Cecilia Brentano, che ripresenta i soggiorni in Italia di Wagner narrati all’inizio del Novecento da Mario Panizzardi integrandoli con scritti, documenti e testimonianze (compresi i giudizi sui suoi contemporanei). È targato La Spezia il preludio dell’Oro del Reno dove in un dormiveglia fra «febbre», «solitudine » e «malinconia» si rivelò al compositore il «puro accordo» di Mi bemolle che «risuonava e ondeggiava in arpeggi ininterrotti». E a Venezia ha terminato Tristano e Isa sotta in cui «traduce in musica l’ammirabile » e «sognante» città lagunare dove, ad esempio, le canzoni dei gondolieri «nobilitate dalla notte » gli avevano suggerito i lamenti della zampogna nel terzo atto del suo capolavoro.
Il Museo Wagner nel Casinò di Venezia dove il maestro è morto - Museo Wagner
Ancora. C’è molta Italia in Parsifal. Ne aveva scritto una parte fra Napoli e Posillipo (che chiamava il «paradiso»), lo aveva ripreso a Siena, lo ha concluso a Palermo. «Qui Parsifal è a suo agio», disse lasciando il gelo di Bayreuth per rifugiarsi nel Mezzogiorno. E, rapito dalla bellezza della costiera amalfitana, immaginò a Villa Rufolo di Ravello il giardino di Klingsor nel secondo atto della sua ultima perla dove si possono anche scorgere le «voci bianche» udite a Napoli dal maestro. A Roma l’autore di Rienzi ipotizzò un’opera medievale sulla Repubbliche italiche dopo aver sentito il Nerone dell’anticlericale Cossa invitandolo a collaborare con Sgambati i cui quintetti per pianoforte lo avevano stregato. E Sorrento fece da cornice all’ultimo incontro con Nietzsche, prima amico e poi nemico.
Villa Rufolo a Ravello che ha ispirato Wagner - Wikipedia
Croce e delizia l’Italia per Wagner, si direbbe citando Verdi. Che di fatto l’eccelso di Lipsia ignorò, benché a Venezia avesse dormito nella stessa camera del “cigno di Busseto”. Dopo aver partecipato alla prova generale del Requiem verdiano a Perugia, si limitò a scrivere in francese che «non era musica religiosa». Ben più tagliente il rivale che alla prima italiana di un’opera di Wagner, il Lohengrin proposto a Bologna nel 1871, apostrofò il lavoro come «mediocre » uscendo dal teatro con lo spartito colmo di annotazioni negative. Il “Lutero dell’arte” ammirava, invece, Spontini che, da direttore musicale, chiamò a Dresda per La vestale e sposò la sua nuova disposizione dell’orchestra (con archi e fiati non più schierati compatti tutti a destra o a sinistra). Ed era stato «rapito dal canto semplice», come lui stesso annotava, della Norma di Bellini dove c’è «canto» e «non soltanto voci come in Germania». Incontrò Rossini che si vociferava avesse criticato le sue partiture ma che definì «il Bach o il Mozart della sua epoca».
Il Teatro Comunale di Bologna dove ha debuttato in Italia la prima opera di Wagner nel 1871 - Wikipedia
L’amore di Wagner per il nostro Paese è stato corrisposto, ricorda Guido Salvetti nell’introduzione al volume. Non solo da Boito o Carducci che considerava il “Liebestod” di Isotta «superiore a tutto che ho mai sentito» o i Maestri cantori un «tesoro musicale». Le opere di Wagner hanno conquistato il pubblico fin dal trionfale esordio bolognese di Lohengrin che ispirò persino una linea di cappellini e cosmetici. Con qualche eccezione: i fischi alla prima dello stesso titolo alla Scala o al debutto di Tannhäuser sempre a Bologna (poi redento con trenta repliche). Sull’intero Ring – i quattro titoli della Tetralogia – si alzerà per la prima volta un sipario italiano nel 1883 alla Fenice di Venezia, la città prediletta dal maestro in cui, durante i soggiorni del “vate” tedesco, le fanfare suonavano in piazza la sua musica e la gente diceva vedendolo camminare per le calli: «È più di un re». Ma, quando morì e il corpo fu portato in vaporetto fino alla stazione per raggiungere poi la Germania, la Gazzetta di Venezia dedicò alla «catastrofe musicale» solo poche righe. Scherzi del destino. E sono gli stessi scherzi che ancora oggi portano il Belpaese a Bayreuth. Grazie all’“italica” musa che ha ammaliato Wagner.