mercoledì 9 ottobre 2024
Per estendere le loro capacità, a parassiti pluricellulari vengono inseriti dispositivi basati sull’intelligenza artificiale: pratiche che inducono un cambio di paradigma sul futuro
Un verme nematode caenorhabditis elegans

Un verme nematode caenorhabditis elegans - WikiCommons

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L’essenza della intelligenza artificiale? Il caenorhabditis elegans, un piccolo verme cilindrico che misura circa un millimetro, ermafrodita nella quasi totalità dei casi, autonomo e inclusivo, appartenente al Phylum dei Nematodi, classe sorprendente di esseri trasparenti, raro prototipo di resilienza data la versatile attitudine nell’adattarsi a qualunque ambiente, che sia l’Antartide o le intricate anse intestinali. Un quasi Lazzaro riportato in vita di recente dopo un letargo di 46.000 anni trascorso nel permafrost, colpevole ispiratore di speranze inconfessabili nei fan del congelamento preventivo sub specie aeternitatis. Una meraviglia ignorata dalla stragrande maggioranza dell’ umanità, senza che questo ne comprometta in alcun modo i destini, nefasti o gloriosi che siano. Chi, se non il caenorhabditis elegans, paradigma esemplare del politicamente corretto, alfiere di istanze che più contemporanee non si può, era miglior candidato ad un esperimento di collaborazione- innesto con la intelligenza artificiale? Alcuni scienziati, cui non difetta una considerevole dose di creatività autentica, hanno iniziato a lavorare su un “agente” IA in grado di interfacciarsi con il sistema nervoso del nostro piccolo verme. Intento ambizioso: dimostrare le potenzialità della ibridazione tra sistemi tecnologici e biologici, capace di raggiungere obiettivi nettamente superiori a quelli ottenibili dalle singole fattispecie separate. Per ottenere il loro risultato, prodromo del mix di sapere funzionale e condiviso che verrà, ed entrare in relazione intima con il linguaggio del nostro nematode, questi pionieri del futuro hanno utilizzato la metodologia “didattica” del deep-reinforcement learning, la stessa utilizzata per insegnare alla IA giochi come il Go. Una rete neurale artificiale, approssimativamente accostabile a modelli biologici di base, avrebbe elaborato le sequenze (stringhe) di azioni e risultati per poi estrarne strategie di interazione del verme con l’ambiente circostante più efficienti, secondo il software. Qui non si trattava propriamente di una partita a scacchi, il compito era indirizzare piccole colonie di caenorhabditis elegans verso aree appetibili di Escherichia coli su una superficie di pochi centimetri. L’agente è stato progettato per interagire con il nostro piccolo eroe attraverso l’attivazione di segnali luminosi, mentre il nematode veniva suddiviso in 5/6 linee definite optogeneticamente, il che significa dotate di aree sensibili alla luce che funzionassero da target per l’estensione operativa (la luce) del “suggeritore” informatico. Una telecamera ha quindi registrato i comportamenti usuali delle minuscole cavie con un anticipo e un ritardo di 15 fotogrammi che potessero restituire all’agente il senso di una scansione temporale, un concetto primordiale di storia, insieme alla mappa sommaria delle opzioni motorie normalmente a loro disposizione. Per farla breve il software IA, una volta istruito, ha indirizzato le varie classi di caenorhabditis elegans, verso soluzioni decisamente più produttive rispetto alla casistica naturale. Biologia e IA sono al lavoro già da molto tempo per implementare ogni possibile ibridazione, non è una novità. Ciò che mi interessa rimarcare è quanto il dibattito attuale sulla regolamentazione della IA in termini generici non abbia alcun senso se non la sua stessa retorica. Trovo il caso del caenorhabditis elegans particolarmente intrigante, ma è solo uno dei miliardi di miliardi possibili, tutti con una loro specificità metodologica, un tema sintattico estremamente settoriale, una architettura linguistica univoca, tutti essenziali e tutti altrettanto aleatori. Sarebbe necessario sapere tutto di ognuno, o perlomeno avere chiaro ogni singolo passo delle categorie principali in cui esperimenti e parti in causa sono suddivisi e interagiscono, ma anche queste sono perlomeno svariati milioni. L’etica, in campo IA, disperde parametri sensibili ovunque, in ogni singola fase e frase, ogni singola scrittura, ogni singola lettera di codice e interpretazione e può essere tranquillamente hackerata con l’omissis di una virgola o uno slash qua e là, senza considerare la imprevedibilità della controparte biologica che complica ulteriormente le cose. Siamo appena agli albori di un’epoca in cui gli esperimenti di questo tipo non solo si moltiplicheranno a dismisura per quantità e qualità, ma diverranno accessibili ad un sempre maggior numero di utenti. Se l’accessibilità e la disponibilità dei mezzi informatici è di per se un valore perché, almeno in apparenza, democratizzerebbe la tecnocrazia come certo versante ideologico trasversale sostiene, al tempo configura la nemesi di ogni forma etica estesa. Il mito della condivisione svanisce con le sue illusioni colpevoli nel momento stesso in cui sembra essere diventato realtà: appropriazione si traduce via via in indipendenza, renitenza, autonomia, libertà, e in definitva assenza di controllo. C’è dell’altro. Spinte alla rivoluzione IA, tutte le scienze subiranno una accelerazione senza precedenti, Ulisse cercherà di superare Ulisse e la povera ingenua Itaca sparirà da qualunque mappa conosciuta insieme alla mappa stessa. Non si dà ritorno, solo un compulsivo, incontrollabile procedere. Dal verme elegans viene un monito fondamentale. Si possono trovare ovunque blog di questo o quell’esperto che in accessi di filantropia gratuita dispensano consigli per evitare al mondo una IA catastrofica. Ma la stragrande maggioranza delle argomentazioni, ripetute allo sfinimento come un disco rotto al tempo della musica in bit, si fondano su considerazioni che un qualsiasi software può analizzare molto meglio. La categoria “qualità dei dati” per dirne una di mille, viene utilizzata come l’intruglio taumaturgico universale che magicamente salverà l’umanità, e non vuol dire nulla quando si viene ai temi etici. La qualità dei dati non è garanzia di nulla se non di software che funzionano meglio, ma il fatto che siano più performativi non ha nulla a che fare con i poveri relitti definiti ancora per poco valori. Per affrontare le sfide dell’IA, esplorare lo sfalsamento tra l’intelligenza umana e quella di un bot, che di certo non coincide con il piano logistico dei dati, serve una intelligenza nuova e inedita. Il core della questione non supporta la fanteria pesante dell’innovazione sul piano squisitamente materialista e tecnico della battaglia, quello è uno specchio per le allodole, epica buona per scrivere qualche libro di moda da parte di chi ne è pedina o attore integrante. Si nasconde in qualche angolo remoto che trascuriamo da troppo tempo, nostra unica risorsa e peculiarità, aperto alla voragine della coscienza, del destino, dell’intenzione, luogo dove il linguaggio produttivo non ha alcuna voce in capitolo perché è unicamente strumento. Diversamente anche a noi toccherà prima o dopo la sorte del nematode e qualche led di una startup acclamata, sul cui sito potremo leggere tutto della mission e di come evitare le insidie della intelligenza artificiale, ci suggerirà dove e come azzannare efficacemente una fetta di soggetti più appetitosa, colonia contro colonia, nematodi versus escherichia coli, s’intende.

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