lunedì 2 settembre 2024
Secondo titolo italiano in concorso a Venezia, il film della regista bolzanina racconta una vicenda famigliare fra dolore, rinascita, sogni e disillusioni sullo sfondo del secondo conflitto mondiale
Un'immagine di "Vermiglio", film di Maura Delpero in concorso a Venezia

Un'immagine di "Vermiglio", film di Maura Delpero in concorso a Venezia - Mostra del Cinema

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Dopo Why War di Amos Gitai e Campo di battaglia di Gianni Amelio, arriva sugli schermi del Festival di Venezia un altro film di guerra senza guerra, Vermiglio, di Maura Delpero, secondo titolo italiano in concorso, ambientato in una comunità montana del Trentino, nell’Alta Val di Sole, durante l’ultimo anno del secondo conflitto mondiale, nell’inverno del 1944. A partire da un sogno in cui il padre, originario di quei luoghi e appena perduto, le appariva ancora bambino, la regista bolzanina rende omaggio alla memoria famigliare e a quella collettiva nell’arco di quattro stagioni in cui sembra compiersi il ciclo della vita, tra nascite e morti, bambini e adulti, latte caldo e albe gelate, legna bruciata, segreti e letti condivisi, vedove e contadini, duro lavoro quotidiano, preti e maestri che hanno sostituito i tanti padri partiti per il fronte e mai tornati. La guerra con la sua distruzione resta fuori campo, ma i suoi effetti producono su chi resta ferite assai profonde. E mentre il mondo si appresta a recuperare la pace perduta, una famiglia perde la sua a causa dell’arrivo di un soldato siciliano rifugiato, forse un disertore, accolto non senza sospetto. Ma non per sempre, perché prima o poi si riaffaccia anche il tempo della rinascita, mentre la crisi economica morde così come la paura per l’irruzione della modernità.​

Il film, che arriverà nelle sale il 19 settembre con Lucky Red, rievoca le atmosfere e il lessico famigliare del cinema di Olmi, come aveva anticipato il direttore della Mostra Alberto Barbera, ma la regista, che dimostra uno sguardo personale e consapevole, si schermisce: «Un grande complimento e una responsabilità. In realtà il mio metodo di lavoro non guarda fuori, ma parte da dentro. Mi piace mettermi all’ascolto del mio inconscio, senza il filtro della razionalità, e di ciò che mi è accaduto nella vita».

La storia, ambientata in luoghi famigliari alla regista, ma in un tempo da lei lontano, un microcosmo sociale nel quale osservare il mutare del ruolo delle donne, sintonizza inoltre gli stati d’animo dei protagonisti con i paesaggi del Trentino, restituisce la profonda intimità dei personaggi nella loro vita quotidiana, dove alcuni eventi cruciali restano fuori campo, si affida a un cuore femminile affrontando anche il tema della maternità, assai caro alla regista che gli aveva dedicato la sua opera prima, Maternal, premiato al Festival di Locarno due anni fa. Lucia infatti, la protagonista, attende una figlia, ma il padre della piccola sparisce prima della sua nascita e una inaspettata tragedia finisce per investire l’intera famiglia, oggetto del pregiudizio dell’intero villaggio.

Interpretato da Roberta Rovelli, Martina Scrinzi (al suo primo lavoro, una vera scoperta), Tommaso Ragno, Giuseppe De Domenico, Orietta Notari, Vermiglio, spesso non estraneo a un approccio documentaristico, ruota intorno a tre sorelle, alle loro ambizioni, a sogni infranti e desideri esauditi, ricorrendo in gran parte ad attori non professionisti che contribuiscono in modo determinante all’autenticità di un film dove grande spazio è concesso ai bambini. «I piccoli sono una sorta di coro – dice la regista – come nelle tragedie greche. Il punto di vista dei bambini è sempre universalmente interessante perché ci riporta a uno sguardo pascoliano, ma anche ironico, e mi ha permesso di offrire al film più toni. Mi sono accorta di essere tornata con il mio lavoro al tema della maternità più complessa. Quella di Lucia è prima fonte di dolore e poi di rinascita ed emancipazione, un’occasione di riappropriazione della propria vita e di speranza nel futuro. Grazie a sua figlia, Lucia diventa necessariamente donna dei tempi che verranno anche attraverso il movimento geografico dalla campagna alla città».

La preparazione del film ha richiesto una immersione profonda nei luoghi scelti come teatro delle vicende: «Amo scrivere stando sul posto – dice ancora la regista - vado in giro nei bar a parlare con la gente, a bere grappa e birra, in cerca di piccole gemme sopravvissute al passare del tempo. Ho scelto ogni singola comparsa per le loro facce ma anche per il loro modo di muoversi nello spazio, persone che non si presenterebbero mai a un casting tradizionale. Poi c’era il dialetto, un elemento cruciale per me, la vera colonna sonora del film». Un detto trentino recita: «La lingua sta meglio dentro i denti», e allora la Delpero gioca di sottrazione, di non detto, facendo parlare i suoi attori a bassa voce. Anche per non svegliare i bambini.

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