giovedì 26 settembre 2024
Frey si racconta nel libro “Istinto puro”, scritto insieme al giornalista Federico Calabrese: «Don’t give up..., questo credo mi ha permesso di esprimermi al massimo»
Sébastian Frey quando giocava alla Fiorentina

Sébastian Frey quando giocava alla Fiorentina - Ansa

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Sébastien Frey è stato uno dei più grandi portieri della Serie A. Da un piccolo parcheggio di un quartiere francese è arrivato con tenacia e qualità fino a San Siro, tramutando un sogno in realtà. Fin dalla nascita aveva il pallone nel suo destino, come suo padre Raymond e suo nonno André prima di lui. Una carriera iniziata nelle giovanili del Cannes, poi il coraggio di lasciare la Francia da giovanissimo per imporsi in Italia. Prima l’Inter, poi il Verona, il Parma, la Fiorentina, il Genoa. La sua storia oggi è in un libro, Istinto puro (Minerva, pagine 270, euro 20,00), scritto insieme al giornalista Federico Calabrese. «Don’t give up – dice – non arrendetevi. Questo è il mio credo ». Ed è proprio questo ciò che gli ha permesso di esprimersi ai massimi livelli, come ci ha raccontato.

Nell’introduzione al libro c’è una lettera che Baggio le ha scritto e si parla di una telefonata che le ha cambiato la vita, portandola verso il buddismo.

«Ho avuto il privilegio di giocare con lui nel 1998 nell’Inter. Lo conoscevo di fama, ma lì l’ho scoperto. Umanamente sono sempre rimasto colpito dal suo modo di approcciare la vita e gli allenamenti. Nel gennaio 2006 subii un grave infortunio. La mia carriera fu messa a forte rischio, ero in un vortice psicologico complicato, pieno di dubbi e incertezze. Avere paure per un portiere è tremendo, rende vulnerabili. Chiedendomi se sarei riuscito a farcela o meno ho pensato a Baggio, a quello che aveva vissuto. L’ho chiamato e gli ho parlato delle mie debolezze. Mi ha racconta il suo percorso con il buddismo dicendomi che gli aveva cambiato la vita, non solo la carriera. Lì ho capito che la mia curiosità doveva fare un passo in più».

Nel libro dice che ha scelto di fare il portiere perché voleva sentirsi speciale. C’è tutto un romanticismo sul ruolo, sulla solitudine che si vive, sul senso di responsabilità.

«Mio papà faceva il portiere e lo vedevo come un supereroe, con queste maglie gigantesche e i guanti, i colori, le imbottiture, il profumo del lattice. Il percorso è nato con il sogno di diventare come mio padre, ma con il tempo mi piaceva l’idea di avere qualcosa in più degli altri, distinguermi in un collettivo. Crescendo mi sono accorto che è un ruolo difficile ma meraviglioso, si deve maturare prima, ci si trova soli anche nei momenti di gioia, quando di segna dall’altra parte del campo. E poi c’è il senso di responsabilità, il fatto che nel bene o nel male la partita può dipendere da te, da una parata o da un errore».

Quali sono i portieri che l’hanno ispirata di più?

Da bambino sono cresciuto con il mito di Lev Jašin, l’unico ad aver vinto un Pallone d’Oro, giocava con i piedi, era all’avanguardia, un gigante. Poi mi piacevano Dino Zoff, Michel Preud’homme, Gordon Banks. Da più grande Peter Schmeichel per la personalità e il modo di interpretare il ruolo».

Come è cambiato secondo lei il modo di interpretare il ruolo oggi?

«Penso ci sia un’evoluzione importante del ruolo, oggi il portiere partecipa quanto un giocatore al gioco, ma mi piace meno il fatto che spesso questa cosa venga estremizzata. A Parma con Prandelli, che era all’avanguardia da questo punto di vista, giocavo con la squadra costruendo dal basso, ma cosa significa giocare con i piedi? Significa solo fare passaggi nell’area di rigore e talvolta rischiare? Cedo che per farlo ci vada personalità, non si dovrebbero mai mettere in difficoltà i compagni e si deve anche saper effettuare un lancio di 40 metri sul petto di un compagno in attacco. Credo che Ederson Moraes del City da questo punto di vista sia il più avanti: spesso i suoi lanci diventano assist che si trasformano in gol».

Dal libro emerge che una delle sue qualità è stata quella di saper ascoltare i consigli dei grandi. C’è ancora qualcuno oggi che riveste questo ruolo nella sua vita?

«Finché c’è voglia e ci sono stimoli, non si smette mai di imparare. Io ho imparato anche negli ultimi anni con il Genoa, nonostante fossi già un portiere completo. Sono stato fortunato a incontrare persone nella vita e nella carriera che mi hanno sempre motivato. Bisogna avere però sempre il senso del rispetto, del sacrificio e del lavoro».

Quali sono stati i momenti più bassi e più alti della sua carriera?

«Escludendo l’infortunio, che comunque mi ha reso più forte e consapevole che con il sacrificio potevo andare oltre, più che di momenti brutti, parlerei di momenti che mi dispiacciono. Forse l’anno in cui sono tornato all’Inter da protagonista; quell’anno è stato complicato, non solo per me ma per la squadra, c’è stato il derby che ha sfasciato tutto. È stato un peccato, perché l’Inter è stato il mio primo grande amore. Il momento più alto forse è stata la Coppa Italia con il Parma. Vincere un trofeo è sempre un’emozione importante».

Com’è stata la sua esperienza in Turchia?

«Dopo il Genoa per me è stato un periodo personale difficile e ho voluto provare a scoprire qualcosa di nuovo. A livello di vita è stata una grande esperienza. Il primo anno è andato benissimo, il secondo invece ci sono stati alcuni problemi. Una volta rientrato a casa, nonostante avessi ancora un anno di contratto, ho deciso di fermarmi».

Capitolo nazionale: per lei è sempre stato un rapporto travagliato…

«Quando penso alla Nazionale è un sentimento diviso. Le ho fatte tutte dall’Under 15 alla maggiore. Penso di aver rappresentato bene il mio Paese. Ho avuto però un allenatore in Under 21 con cui ho avuto problemi e poi è diventato allenatore della Nazionale maggiore. Lì ho capito che non avrei mai avuto grande spazio. Peccato, perché indossare la maglia della propria Nazionale è una delle cose più belle che possano capitare da giocatore. Credo poi sia stata anche una questione generazionale; mi sono trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato, dopo la fine del ciclo del Mondiale del 1998. Un po’ come quello che sta vivendo l’Italia da qualche anno. Questa è forse la parte che un po’ rimpiango della mia carriera».

Qual è il giocatore più forte con cui ha giocato?

«Ronaldo all’Inter. Chi l’ha vissuto lo sa. Quando senti parlare tutti i più grandi difensori che l’hanno vissuto da avversario, citano lui. Io l’ho vissuto da compagno, quindi non sono fuori di testa a dire che è stato lui il più forte. Ronaldo ha rivoluzionato il ruolo dell’attaccate, è stato unico. Quello che faceva lui all’epoca non lo faceva nessuno. E poi una menzione la voglio fare per le bandiere: calciatori come Del Piero, Totti, Cannavaro, Maldini, hanno segnato il mondo del calcio per sempre».

Qual è stato invece l’allenatore più importante?

«Sono un grande ammiratore di Marcello Lippi, che non a caso ha vinto tutto. Ho sempre apprezzato la sua personalità e schiettezza. Purtroppo l’ho vissuto poco. E poi Prandelli, da allenatore è stato fondamentale, abbiamo fatto cose importanti insieme. Credo sia uno degli allenatori più preparati a livello tattico. Molto attento ai dettagli. Sono contento di aver lavorato con lui. Come preparatori dei portieri invece cito Vincenzo Di Palma e Gianluca Spinelli. Due persone che mi hanno fatto crescere e con cui mi sono divertito. Ogni allenamento con loro è stato un piacere».

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