La regista argentina Valentina Carrasco - Nicolas Riente
Legnano. Il Carroccio. Federico Barbarossa. Oggi l’immaginario legato a queste icone medievali è più politico che storico. Perché a sentire le parole chiave di La battaglia di Legnano pensi più alla Lega (e alla Pontida) di Salvini e prima ancora di Bossi e Miglio che non a quella di Alberto da Giussano – anche se la Storia ci dice che il vero comandante dei comuni lombardi nella battaglia del 29 maggio 1176 fu Guido da Landriano. Battaglia che Giuseppe Verdi racconta in musica nel 1849. «Facendone uno dei manifesti del suo patriottismo risorgimentale che è ben lontano dai nazionalismi di oggi». Ma che per certi partiti politici, in Parlamento e in Europa, è una bandiera. La battaglia di Legnano. Opera rara che va in scena domenica per il Festival Verdi – che si inaugura domani sera con la versione francese di Macbeth – al Teatro Regio di Parma. «Per il popolo abiti medievali. Per i soldati divise della Prima guerra mondiale» racconta Valentina Carrasco, regista dello spettacolo. Sul podio di orchestra e coro del Comunale di Bologna (salvo sciopero) Diego Ceretta, classe 1996. Meno di trent’anni, come i ragazzi che ieri hanno affollato l’anteprima dell’attesa produzione. «Il mio spettacolo è per loro. Per un pubblico che non conosce tutto di Verdi, come capita agli esperti ascoltatori del loggione di Parma. Oggi che abbiamo attraversato due guerre mondiali, una guerra fredda, oggi che abbiamo dittatori in molti paesi del mondo non possiamo paragonare i nazionalismi che si diffondono non senza preoccupazione con il patriottismo di Verdi. Anche se quel ripetere Viva l’Italia da parte del coro potrebbe suggerirlo» racconta Valentina Carrasco, argentina di Buenos Aires, classe 1974, premio Abbiati per la sua Favorite al Donizetti festival di Bergamo. «Ma più della metà della mia vita è stata in Europa».
Partiamo, allora, dalla Storia, Valentina Carrasco. La battaglia di Legnano racconta la lotta dei Comuni contro il Barbarossa. Lo vedremo in scena così come si studia a scuola?
«Non proprio.Il testo del libretto è molto ridondante, inneggia all’Italia che, però, ai tempi della vicenda non esisteva. O meglio, esisteva geograficamente, ma non politicamente. L’aspirazione all’unità che ascoltiamo nell’opera è quella del Verdi patriota risorgimentale. Periodi storici che si sovrappongono, dunque. Allora ho scelto di mettere l’accento sulla battaglia. Ho pensato alle tante battaglie equestri che si sono susseguite nella storia. E, pur non essendo un’animalista militante, ho voluto mettermi dalla parte dei cavalli, animali che l’uomo sacrifica, mandandoli a combattere, portando in groppa i soldati o trascinando l’artiglieria. Vittime collaterali, che non scelgono di combattere e di morire e che, anche in caso di vittoria, non ne godono i frutti. Così l’iconografia del mio spettacolo è la stessa di tanti film che raccontano battaglie, campi disseminati di cadaveri e di cavalli morti».
E cosa c’entrano Lida e Arrigo, i protagonisti insieme al Barbarossa dell’opera di Verdi?
«Ho fatto un passo in più e ho pensato alle tante, troppe vittime collaterali di tutte le guerre che si combattono oggi. Civili innocenti, donne, bambini, anziani che non vogliono la guerra, che muoiono senza aver chiesto nulla e che non si godono eventuali vittorie, trofei solo per i potenti. La mia Battaglia di Legnano racconta di loro. Non c’è un epoca definita perché con la scenografa Margherita Palli e la costumista Silvia Aymonino abbiamo giocato con i periodi storici, per confondere il pubblico che vedendo questo mix non capirà dov’è».
In Italia c’è un partito politico che si richiama a Legnano e Pontida, la Lega di Salvini. Ci sarà qualche riferimento?
«Non esplicito, ma qualche strizzatina d’occhio ci sarà. Poi, chi capisce capisce…».
Niente attualità esplicita, ma chi potrebbe essere oggi il Barbarossa?
«Potrei dire Vladimir Putin pensando a uno che invade un territorio. Ma sappiamo che storicamente Federico Barbarossa, che comunque cattura la mia simpatia, non può essere paragonato a un tiranno di oggi che invade un’altra nazione. Al tempo le frontiere non erano come quelle attuali né i confini così netti. Verdi lo dipinge come un cattivo per i suoi intenti patriottici».
Certo il cuore della vicenda, l’indipendenza e l’autonomia, la lotta per un territorio, oggi è molto attuale.
«Il patriottismo, lo sappiamo,è molto presente nelle opere di Verdi, specie del primo. In quelle che lo evocano esplicitamente, penso a Nabucco, Lombardi, Vespri e la stessa Battaglia di Legnano. Ma lo si sente, lo si vede in controluce anche in altre, penso al fuoco di certi cori del Trovatore. Un patriottismo che è aspirazione all’unità. E allora oggi ci vedo il bisogno di identità dell’Unione Europea. Oggi come allora si tratta di unire popoli diversi che non si capiscono perché parlano anche lingue diverse. E mi piace pensare che il patriottismo verdiano, anche quello della Battaglia di Legnano, oggi è un canto all’Europa. Unione e non divisione come invece vogliono fare i nazionalismi. E quando si vuole separare ci si crede migliori di altri, compiendo anche un atto di superbia».
Dopo la prima versione di Simon Boccanegra, che ha messo in scena a Parma nel 2022, torna al Festival Verdi ancora con un’opera “rara”.
«La battaglia di Legnano è sicuramente molto diseguale nella scrittura, perché anche a essere un maestro si impara e Verdi lo ha fatto sul campo. Ma la partitura ha alcuni momenti davvero riusciti, ci sono spunti che anticipano Traviata, Rigoletto, Ballo in maschera, idee che troveranno poi uno sviluppo nel Verdi della maturità. Compito di un festival come il Festival Verdi è fare cose che nessuno fa. E io sono felice di dare il mio contributo».
Nel Boccanegra le lotte sindacali. Qui le vittime della guerra. Come calare Verdi nell’oggi?
«Verdi, in quasi tutte le sue opere, mette in campo un contesto storico-sociale che influisce sull’evoluzione dei personaggi. Le vicende personali che vengono raccontate sullo sfondo della storia sono sempre condizionate dal contesto sociale e politico in cui avviene la vicenda. Questo allora è il punto di partenza imprescindibile. E per questo non riuscirei mai a pensare a un Verdi astratto. Cosa che potrei fare, invece, con Donizetti, che racconta vicende pur calate in un contesto storico ma che dalla storia non vengono condizionate, tanto che potrebbero svolgersi in indifferentemente in Europa, in Asia o in Oceania».
Formazione argentina, carriera europea la sua…
«Mi sono avvicinata tangenzialmente alla regia. Ho studiato musica in Conservatorio a Buenos Aires. Ho studiato Fisica, ma non era un mondo che faceva per me. Ho studiato letteratura, danza. Un giorno la Fura dels Baus mi ha coinvolto in un progetto, Don Quijote en Barcelonadi José Luis Turina, per la lettura della partitura. Sono rimasta affascinata dal loro mondo ed è iniziata una lunga collaborazione».
Perché ha scelto l’opera?
«Direi che è la lirica che ha scelto me. La mia formazione eclettica sicuramente si è rivelata l’ideale per una forma di spettacolo che unisce musica, teatro, parola, danza. Quando mi metto davanti a una partitura aspetto che sia l’opera a parlarmi, non cerco di applicare la mia visione a quella storia e a quella musica. Ogni opera parla per se stessa e io devo sentire quello che l’opera dice in questo momento storico».
Il suo Boccanegra tra i quarti di carne appesi in un mattatoio fu un po’ contestato…
«I fischi non mi spaventano, a Parma hanno qualcosa anche di folkloristico. Se sono convinta di quello che ho fatto non mi turbano. Certo, quello che mi dispiace è il fatto che se qualcuno contesta significa che non ha recepito il messaggio che volevo mandare».