domenica 8 maggio 2016
INTERVISTA Carlo Verdone: «Un cinema per papà Mario»
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Ancora adesso, a distanza di anni, capita che la mano gli scatti verso destra. «Dove sta il telefono – spiega Carlo Verdone –. Magari sto scrivendo, c’è una frase che non mi torna, una costruzione che non mi convince, e allora mi dico: “Aspetta, chiamo papà e sento che cosa ne pensa”». Mario Verdone, il padre del popolare attore e regista, è morto il 26 giugno 2009, poco prima di compiere 92 anni. Studioso del futurismo, pioniere dell’insegnamento universitario del cinema, è una figura che ha lasciato un forte rimpianto in chi lo ha conosciuto e ne è stato allievo. Di lui Carlo Verdone ha parlato a lungo nel suo libro autobiografico ( La casa sopra i portici, Bompiani, 2012) e nel documentario Carlo!, realizzato da Fabio Ferzetti e Gianfranco Giagni nel 2013. Nei prossimi giorni a Mario Verdone sarà intitolato il cinema-auditorium che lo stesso Carlo ha contribuito a finanziare presso il liceo Majorana di Guidonia, alle porte di Roma. «A dire la verità non è la prima volta che intervengo a favore di un’operazione culturale – dice –, solo che di solito preferisco non parlarne». E perché questa volta invece sì? «Perché si tratta di un cinema che svolgerà una funzione educativa e questo mi riporta a quand’ero ragazzo e mio padre mi regalò una tessera del Filmstudio di Trastevere. La mia formazione cinematografica è avvenuta lì, è lì che ho conosciuto le opere sperimentali di Andy Warhol, di Gregory Markopoulos, di Yoko Ono e di tanti altri. Non fosse stato per il dono di mio padre e per i film che ho visto in quella sala, non avrei mai avuto le conoscenze adeguate per diventare regista». Mi scusi, ma parliamo degli anni Settanta. Oggi i ragazzi trovano in rete tutti i film del mondo... «Ma è proprio questo il problema. Conoscere il cinema non significa vedere un film da soli, magari davanti allo schermo di un telefonino. C’è una dimensione sociale, di condivisione e confronto, che deve essere recuperata. Non sono contrario al digitale, figuriamoci. Ho un profilo Facebook e lo adopero per raccontare aneddoti e retroscena della mia carriera. Però non può bastare. I più giovani, in particolare, rischiano di essere condannati alla solitudine, senza mai un’occasione di dialogo autentico. Per questo ci vuole una sala cinematografica». Specie alla periferia di Roma? «Specie alla periferia di Roma, certo. L’ho detto e lo ripeto: se non si parte dai margini per convergere verso il centro, non si avrà mai una grande città, ma soltanto una città grande. So benissimo che in periferia operano già piccole associazioni culturali attivissime, ma la mia speranza è una sala come questa, in una zona così popolosa, svolga un ruolo di aggregazione più capillare ed efficace. Il fatto che l’auditorium sia all’interno di una scuola, poi, rende l’iniziativa ancora più importante». Quali obiettivi immagina? «Guardi, l’altro giorno ero al Centro Sperimentale, stavo parlando con uno studente, il discorso è caduto sulla commedia all’italiana, mi sono accorto che qualcosa non andava. “Ma tu lo conosci Ugo Tognazzi?”, gli ho chiesto. Quello niente, neanche sapeva chi fosse. E parliamo di un’istituzione di eccellenza. Vuole che in giro per la città non ci sia bisogno di promuovere la conoscenza dei nostri classici?». Suo padre è stato un grande educatore. «Era molto spiritoso, divertentissimo, ma nello tempo severo, integerrimo. Se si accorgeva che uno studente non conosceva Shakespeare o Goldoni erano guai. Una volta al mese, la domenica mattina, portava noi figli a vistare un museo. Ricordo ancora la lezione sull’astrattismo che improvvisò alla Galleria d’arte moderna. E tutto questo con l’ironia di un toscano che amava Roma, che amava la cultura. Veniva una famiglia molto povera, era orfano di guerra. Nel 1917, quando era nato, suo padre combatteva sul Carso. Nell’ultima lettera alla moglie si raccomandò: se non torno a casa, fa’ studiare il bambino». E così è stato. «Così è stato. A Siena e a Firenze, da ragazzo, iniziò a frequentare gli ambienti intellettuali, fino a quando, all’università, non incontrò Norberto Bobbio, che per lui fu come un padre putativo. Gli piaceva moltissimo raccontare l’esame di critica del cinema che dovette sostenere per diventare direttore del primo Istituto universitario di Teatro e Spettacolo, a Parma. Lui parlava, parlava, e la commissione non ci capiva niente. Sono passati quasi sette anni dalla sua morte, ma mio padre è sempre presente nella mia vita, ogni giorno». Sta lavorando a un nuovo film? «Sto ancora cercando il soggetto giusto. Mi piacerebbe una storia corale, che getti uno sguardo insolito sull’Italia d’oggi. Più vado avanti e più diventa difficile fare film, è come se dovessi combattere con il mio passato. Ma sono sicuro che, alla fine, tireremo fuori qualcosa di buono».
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