Un frame del docufilm “Molecole”, di Andrea Segre, che ieri ha aperto il 77° Festival del Cinema di Venezia - .
«Mi ha fatto un po’ paura quando la Biennale mi ha proposto di partecipare alla ripartenza del dialogo fra Venezia e il cinema, tra Venezia e la vita. Ho chiesto a mia madre e a mia sorella se era giusto mostrare agli altri questo documentario così personale dedicato alla memoria di mio padre, veneziano doc. Quando mi hanno detto di sì, ho accettato ». Il regista Andrea Segre, nato a Dolo ( Venezia) e cresciuto a Padova, racconta con il suo abituale riserbo l’emozione che lo ha accompagnato ieri sera al Lido per la pre-apertura della 77ª Mostra del cinema di Venezia affidata al suo Molecole.
Si tratta di un affascinante documentario, nelle sale da domani, girato durante il lockdown dal regista bloccato nella casa di famiglia. Ed è in quelle stanze antiche alla Giudecca che Segre ha ritrovato lettere, foto e Super8 girati dal padre, prematuramente scomparso dieci anni fa, quando aveva 16 anni. Filmati di una Venezia anni ’50, preturismo di massa, alternati a immagini splendide e angoscianti di una Laguna vuota a causa della pandemia e ai racconti dei pochi veneziani che vivono e resistono in una città attonita in cerca di identità.
Il regista veneziano Andrea Segre - .
Ed è così che Molecole, prodotto da Zalab Film con Rai Cinema e distribuito da Lucky Red, si rivela il prequel perfetto per introdurre una Mostra di Venezia in bilico fra voglia di ripartire e nuove paure. Una manifestazione caparbiamente voluta dal direttore Alberto Barbera, senza star americane causa Covid-19, ma comunque ricca di proposte italiane (ben quattro in lizza per il Leone d’oro), blindata da misure di sicurezza eccezionali che verranno messe alla prova oggi quando la kermesse, che si chiuderà il 12 settembre, prenderà il via ufficialmente. Ad inaugurarla nella cerimonia di apertura, in diretta alle 18.45 su Rai Movie (canale 24 dtt), sarà la madrina Anna Foglietta con un discorso basato sulle parole “fare” ed “empatia”, mentre ad aprire la kermesse sarà la proiezione di Lacci di Daniele Luchetti, Fuori Concorso. Allergico ai lustrini e da sempre votato al documentario di inchiesta, Segre dà il segno di un nuovo clima, dove l’indagine parte da dentro di sé, dal rapporto padre e figlio, dalla ricerca del senso della vita per poter capire il mondo esterno. «Ero a Venezia a febbraio per due progetti che avevo deciso di fare per riprendermi il rapporto con la città che da piccolo frequentavo tutti i week end, ma che non avevo capito – ci racconta il regista –. Un progetto con il Teatro Stabile del Veneto per raccontare il rapporto con le acque scritto insieme ad Andrea Pennacchi e uno per raccontare il rapporto con il turismo dal punto di vista di tre fratelli pescatori».
Progetti che continueranno, si augura Segre, che ha deciso di restare nella casa paterna con la compagna e la figlia piccola, uscendo ogni tanto con la telecamera per documentare una quiete irreale che ricordava la Venezia di mezzo secolo fa, non ancora violata da orde di turisti intruppati e dalle grandi navi. «Mio padre Ulderico aveva lasciato le pellicole originali girate negli anni 60 a un cugino di mia madre. Non me l’aveva detto, come quasi tutto nella vita» svela Segre, che rivolge personalmente una affettuosa lettera piena di interrogativi sul destino a quel padre ingegnere chimico. Siamo fatti solo di materia, questa la convinzione di padre e figlio, eppure le nebbie della laguna silenziosa durante il lockdown evocano qualcosa di Altro, dichiara il re- gista mentre inquadra sul finale gli scintillanti mosaici della basilica di San Marco. «Nella mia famiglia c’è una parte di credenti e una di non credenti – ci spiega il regista –. Io ho sempre avuto molta invidia per la parte di credenti sincera e molto fastidio per la parte di credenti ipocrita e legata al potere, sia dal lato cattolico materno sia dal lato ebreo paterno. È stato il fastidio a tenere lontano mio padre e me da un credo, ma uno poi si pone delle domande su quello in cui non crede. Come Camus: i suoi testi ti fanno riflettere su cosa resta quando sei solo materia. Invece alcuni miei parenti cattolici hanno un credo molto sincero e profondo, cui si affidano: un rapporto sereno con l’esistenza che io vorrei avere».
Il regista: «Nel mio doc ho rivisto la Laguna di mio padre: deserta come quella del Covid» Il regista veneziano Andrea Segre Un frame del docufilm “Molecole”, di Andrea Segre, che ieri ha aperto il 77° Festival del Cinema di Venezia
Il silenzio del padre è lo stesso che il regista ha vissuto nella Venezia della chiusura, «era la città che piangeva, che ti diceva la propria paura, che celebrava la sua magnificenza e il suo dolore – aggiunge –. Il silenzio ha a che fare con ciò che sta dentro alla materia, è legato all’inspiegabile della vita. Il rapporto col silenzio è giusto averlo in un’epoca in cui tutti vogliono dire qualcosa». A parlare, in Molecole sono le persone comuni, i veneziani veri, quel pugno di residenti e resistenti alle tante difficoltà. E così entriamo nella casa allagata di una giovane coppia che lotta con l’acqua alta ma che non molla; e saliamo sul barchino di una ventenne campionessa di voga longa che, nonostante i suoi amici siano andati via, sfida la solitudine per amore della Laguna. Una Laguna però ferita dai mutamenti climatici, dall’insabbiamento delle barene all’acqua che ha devastato la città lo scorso novembre. «Alla potenza estetica delle immagini di Venezia deserta, si accompagna un urlo di dolore e disorientamento profondo di una città nella quale, se le togli il turismo, non rimane più nessuno. E non avere residenti ha a che fare con l’acqua alta, perché a Venezia la comunità ha sempre trovato soluzioni» aggiunge il regista, che un’idea ce l’avrebbe.
«Ci vuole una enorme decisione strutturale. Bisogna decidere che lo svuotamento di Venezia, la non residenzialità, è un problema grave per l’impatto ambientale: la monocultura turistica è la morte di una città in cui sono rimaste 1500 persone. Occorre creare altre economie per cui la gente possa risiedere a Venezia, se no diventa museo di se stessa». La cosiddetta “gentrification” è un male ormai globale. «Non mi piace un Paese dove le persone giovani, quelle che costruiscono famiglia, devono cercare casa fuori dei centri storici perché sono luoghi affidati all’economia del turismo, inaccessibili dal punto di vista immobi-liare – aggiunge Segre –. Un Paese che dice alle persone normali che non possono vivere nel centro storico è un Paese che ha un problema».