Gli studenti affrontano la prova di Italiano al liceo Cavour di Torino (Ansa)
«Ogni studente è una persona che vale, quali che siano i suoi risultati scolastici». È l’incipit del 'piano dell’offerta formativa' di un grande istituto professionale, che Mariapia Veladiano riporta nel suo nuovo libro, Parole di scuola (Guanda). Un saggio articolato su un certo numero di parole-chiave (alcune condivise e proposte, altre discusse e talora magari contestate) che fanno il lessico della scuola di oggi. Parole legate tra loro da un’idea cardine: la centralità della persona, prima della 'macchina' (burocratico- amministrativa) del sistema di istruzione.
Nel congedarsi dalla scuola, che è stata per tanti anni il suo mondo (prima insegnante e poi preside), la scrittrice mostra di essere fermamente convinta che oggi la scuola debba trovare la lingua con cui raccontarsi, una sua lingua, diversa da quella a sfondo economico che l’ha attraversata negli ultimi anni: crediti scolastici, debiti formativi, traguardi, studenti come lavoratori, presidi (anzi, dirigenti scolastici) come datori di lavoro e così via.
Urge invece una una rifondazione delle «parole di scuola», e che lo dica una persona che nella vita ha coltivato soprattutto due grandi passioni, la scuola e la scrittura, dovrebbe farci riflettere. Perché le parole non sono mai neutre. Il volume affronta, con taglio vivace e quando serve con una giusta dose di verve polemica, tante delle questioni oggi al centro del dibattito pubblico.
La mancanza di fiducia nella scuola da parte della società: si parte a insegnare con un «debito di fiducia», ed è tutto da dimostrare di essere bravi insegnanti. Il tema dell’integrazione, rispetto al quale la società e la politica non sembrano oggi aiutare molto, nonostante le esperienze di partecipazione e di inclusione messe in atto dagli anni Settanta in poi: «È come se l’esperienza di inclusione e integrazione pensata e voluta per la scuola non avesse saputo uscire dalle aule e sconfinare felicemente nella società per costruirla diversamente aperta e accogliente». Ed è chiaro che il meccanismo dell’esclusione (dello straniero, del disabile ecc.) nasce da una paura, che cerca sollievo «nella forza di un’identità che ha bisogno di nemici per rafforzarsi».
A un certo punto l’autrice parla dell’'identità' (e dell’enfasi con cui certa politica batte continuamente su questo concetto) come di una «versione dematerializzata » del razzismo. Anche la competizione, che spesso viene sbandierata come una molla positiva per migliorarsi, rischia di essere qualcosa che fa del male, quando venga coltivata come smania di arrivare primi: «Competere viene dal latino cum (con, insieme) e pètere (andare verso), ovvero andare insieme verso uno stesso punto. Il contrario della corsa solitaria immaginata dall’enfatizzazione del voto, del premio, dell’eccellenza intesa come una posizione che lascia il mondo ai lati o meglio ancora alle spalle».
Anche perché l’ideologia del merito non fa che ribadire le diseguaglianze iniziali. Mentre la scuola dovrebbe essere il luogo dove si realizza concretamente un’autentica democrazia delle possibilità. Affinché quest’ultimo obiettivo possa realizzarsi occorrerebbero oltre alla professionalità e alla buona volontà dei tanti insegnanti che ogni giorno salgono in cattedra - adeguati investimenti. Invece dall’inizio della crisi economica l’Italia ha costantemente diminuito la spesa per l’istruzione, «mentre i governi per legge sovvertivano le regole a ogni cambio di ministro, con una capacità di improvvisazione pari alla confusione che creavano. Tutto sempre a costo zero per l’amministrazione, unica espressione copiaincollata e trasmessa di tempo in tempo».
Non manca in queste pagine la critica alla famigerata legge sulla 'buona scuola' (la 107 del 2015). Che una scuola sia buona dovrebbe dirlo il mondo intorno, mentre un progetto di riforma, come quello voluto dall’ex premier Matteo Renzi, che si autodefinisce 'buona scuola' si presenta da subito con il peccato d’origine di una certa presunzione e arroganza verso una scuola precedente che considera 'cattiva'. Eppure è quella scuola 'cattiva' che ha permesso a intere generazioni di superare le distanze sociali, di uscire dalla povertà e dall’ignoranza dei propri diritti.
Ma qual è, allora, una scuola veramente 'buona'? Dalla lettura del libro si ricava una risposta molto chiara. Una scuola che parte da un credito di fiducia verso ogni ragazzo ma che non regala niente. Offre impegno e serietà e chiede impegno e serietà. Lavora intensamente per compensare le disuguaglianze di partenza. Una scuola 'di parte', nel senso che sta dalla parte di chi ha avuto meno dalla vita. Una scuola dell’equità e della libertà, lontana dalle tentazioni demagogiche. Una scuola che sappia coltivare la collaborazione e aiutare le persone (i ragazzi, ma anche le loro famiglie di provenienza) a superare la paura nei confronti degli 'altri'. Insomma, un laboratorio di convivenza e di vita di cui, oggi più che mai, il nostro Paese non può fare a meno.
Mariapia Veladiano Parole di scuola Guanda, Pagine 150. Euro 14,00