Il compositore e direttore artistico del festival MiTo, Giorgio Battistelli - Roberto Masotti
C’è una Drink jazz suite, a Milano dedicata alla Campari e a Torino alla Martini&Rossi. «Ho chiesto a Stefano Massini di scrivere una drammaturgia che raccontasse, in dialogo con un ensemble jazz, due storiche imprese, una milanese e una torinese». E c’è una prima assoluta di Fabio Vacchi, Un diavolo a tutto campo. «Dove il Diavolo è naturalmente il Milan. Calcio, dunque. La cosa più globalizzata che oggi possiamo immaginare, ma calata in una precisa realtà. Perché un festival non può essere solo un contenitore di eventi, seppur di altissimo livello. Un festival deve creare connessioni. Prima di tutto con il territorio che abita».
Connessioni. La parola d’ordine del nuovo corso di MiTo, il festival che unisce Milano e Torino in una staffetta musicale che prende il via il 6 settembre nel capoluogo piemontese «con la Nona sinfonia di Beethoven diretta da Michele Spotti in piazza San Carlo. Luogo di ritrovo della città, ma anche luogo di dolore e di morte, come ci ricorda la cronaca. A Milano si parte l’8 settembre con Riccardo Chailly che dirige Berio, Rhim e Ravel al Teatro alla Scala, il cuore cultuale della città».
Altre connessioni volute da Giorgio Battistelli, nuovo direttore artistico di Mi-To – che quest’anno ha come titolo Moti –, chiamato a disegnare i cartelloni 2024 e 2025 della rassegna. «Due anni possono sembrare pochi, ma sono il tempo giusto per sperimentare una nuova formula per MiTo e gettare le basi per il futuro » dice il compositore di Albano Laziale, classe 1953, Leone d’Oro alla carriera della Biennale di Venezia nel 2022. «Un laboratorio per trovare una nuova formula, per MiTo. E non solo per MiTo, ma più in generale per i festival di cui l’Italia è piena e, perché no, per le nostre fondazioni liriche che hanno bisogno di nuovo pubblico e di non pensare solo al pareggio di bilancio».
Cosa intende, Giorgio Battistelli?
«In Italia, c’è il rischio che i cartelloni dei festival, ma anche dei teatri e delle società concertistiche, siano tante fotocopie tutte uguali. C’è una saturazione non solo nel numero di rassegne, ma anche nella formula che è ormai sorpassata. Un festival non può essere solo un contenitore di cose, ma deve avere una sua forza sperimentale. Come succede a Salisburgo, a Lucerna o alla Ruhrtriennale in Germania. Certo, sono istituzioni che hanno a disposizione grandi fondi, ma al di là dei soldi occorrono le idee. Occorre creare connessioni con la città e con il luogo che un festival o un teatro abita. Oggi si parla di numeri, di record, si fanno comunicati per dire quanti biglietti un festival ha staccato. Un’idea “consumistica” di un cartellone. Ma la cultura non può essere questo, anche se oggi i regolamenti statali impongono questo».
Le connessioni di MiTo 2024 passano attraverso il calcio.
«Iniziamo con il Milan, squadra fondata 125 anni fa. Lo raccontiamo in musica con la partitura di Fabio Vacchi diretta da Diego Ceretta e attraverso filmati storici d’archivio. Un vena pucciniana, tra amori e odi, tra passioni e rivalità. Il prossimo anno invece toccherà al Torino, tra vittorie senza precedenti e la tragedia di Superga. Un’ora di musica che parla di calcio. E chissà che qualche tifoso, incuriosito dall’operazione, poi si appassioni alla musica. È questo quello che intendo per connessioni».
Perché iniziare questo rinnovamento da un festival?
«Perché è più facile sperimentare un percorso innovativo nel perimetro festival che non all’interno di una fondazione lirica. Anche se questa carica innovativa e sperimentale dovrebbe attraversare anche le programmazioni dei nostri teatri che spesso, dovendo rincorrere il pareggio di bilancio, dimenticano l’utopia che dovrebbe guidarli, quella di essere elemento di disturbo per il pubblico che non deve essere consolato, ma stimolato attraverso domande. Quelle che abitano i capolavori della musica. La musica si è sempre rinnovata, modificando e facendo evolvere le forme. Dobbiamo farlo anche noi, dobbiamo sorprendere il pubblico, portarlo in territori inesplorati».
E questo oggi non succede nel panorama musicale italiano?
«Raramente. Non c’è ascolto di quello che accade nella società, non ci sono connessioni perché ognuno è chiuso in se stesso, autoriferito. Il sistema musica in Italia è molto complesso con vincoli sindacali e contrattuali che vanno rivisti se si vuole avere una visione ampia e riconquistare credibilità internazionale. Non c’è connessione con la scuola e dunque con la società di domani».
C’è spazio per il merito?
«Continuo a credere che la qualità sia fondamentale per la crescita del nostro Paese. C’è la necessità di un rinnovo generazionale, certo, ma soprattutto occorre rinnovare il pensiero perché non è detto che automaticamente un giovane cambi il pensiero. Quanti giovani sono molto più conservatori di persone di una certa età...».
Qual è il ruolo di un compositore oggi?
«Quello di parlare al nostro tempo. Il lavoro del compositore è un lavoro di denuncia. In questo sento molto vicini i pensieri pasoliniani sul ruolo del poeta. Poi deve lavorare sulla prossimità come sto facendo con Operapaese che sabato chiuderà il festival Storie dell’Appennino. Oggi non basta più la divulgazione, non basta portare la musica a tutti come ha cercato di fare la politica culturale della sinistra negli anni Settanta con il decentramento. Idea interessante, ma naufragata perché mancava la connessione con il territorio, si andava, si faceva lo spettacolo e poi ognuno a casa propria. Il contraccolpo è stato un accentramento che oggi dobbiamo superare, inventandoci nuovi spazi dove incontrare il pubblico».