Giampiero Neri nel suo studio - foto di Alessandro Rivali
«Di questi boschi in partibus infidelium / è abbastanza comune la poiana». Ogni volta che passo davanti al Policlinico di Milano risento la voce di Giampiero Neri che recita questi versi di Paesaggi inospiti, indugiando come se le parole gli venissero per la prima volta sulle labbra. In una di quelle visite in ospedale mi donò Un insegnante di provincia, dedicato «con affetto» e con grafia tremolante (sotto leggo a matita, aggiunta da me, la data 10 gennaio 2023). L’occasione dell’altra sua dedica che conservo era stata il nostro primo incontro, quando Neri aveva tenuto per una cinquantina di studenti una conversazione sui classici, sulla poesia, sulla storia, interrompendosi per la commozione mentre affermava che la ragione ultima per cui si scrive è per «dire la verità». Riapro quella copia de Il professor Fumagalli e altre figure e leggo: «A don Carlo, come inizio di un’amicizia, 25.8.12». E così infatti è cominciata una condivisione di letture e riflessioni che si è sviluppata in diversi incontri e per lettera (memorabile, tra gli incontri dal vivo, una conversazione avvenuta nel caffè del Chiostro del Bramante a Roma, insieme ad Andrea Monda e altri amici).
«Sono figlio di questi tempi, basati sulla menzogna. Della pubblicità, della politica particolarmente. Ma forse non sono soltanto questi i tempi della menzogna». Rileggendo i biglietti che ho ricevuto da lui lungo gli anni, mi sono accorto di possedere una breve serie di personali prose quasi poetiche, che passano da temi letterari a confidenze di fede e di famiglia. «Penso alla necessità che avevano i filosofi, Bacon, Cartesio, di trovare un punto da cui partire, un punto fermo. Si vede che non ne vedevano molti. Su questi bei fondamenti, ti mando i miei saluti cordiali» (14 gennaio 2013). Gli amici di Neri riconosceranno la sua firma nell’espressione «su questi bei fondamenti», ricorrente in diversi passi delle ultime raccolte.
Un biglietto del gennaio 2013 è un quadro famigliare: «Proprio oggi mia moglie uscirà dall’ospedale e sarà un sollievo. Dovrò accudirla ma a casa nostra sarà abbastanza facile e poi viviamo giorno per giorno. Questo è l’impegno che ho preso con me stesso. Devo anche abbassare l’orgoglio. L’altro giorno stavo lodando la russa che viene da noi per le pulizie. È davvero brava. Lei è stata a sentirmi e poi mi ha detto di ricordarmi di non gridare, che lei si spaventa. Ci sono rimasto un po’ male, ma il giorno dopo ho pensato che era un avvertimento della provvidenza. Ne terrò conto. Sto leggendo Sant’Agostino. Ogni volta che lo rileggo mi sembra di capirlo meglio e, in ogni caso, lo trovo grande, grandissimo».
A dire il vero, i miei gusti letterari di partenza erano solo in parte comuni a quelli di Neri (non dimentico lo sguardo che diede dal letto di ospedale al «Colloquio in dialogo con Mario Specchio» di Luzi che avevo appena comprato su una bancarella, tanto che mi sentii quasi in dovere di giustificarmi specificando che era costato solo due euro). Anche per questo sono testimone di una delle sue qualità, che a mio avviso accomuna tutti i maestri: la capacità di ascoltare con sincero interesse. Il suo biglietto (del maggio 2013) per ringraziarmi di un articolo su Thomas More e l’umorismo inglese che gli avevo condiviso è emblematico: «Dell’umorismo inglese sapevo molto poco, oltre Wodehouse. Conoscevo la storiella del Lord che, vedendo precipitare dalla finestra il suo maggiordomo, nota che ha cambiato la cravatta. Di Sterne non ho letto niente e, quanto a Dickens, mi ha fatto soprattutto piangere e particolarmente il suo Davide Copperfield, una vera bomba lacrimogena. Mi viene in mente adesso di un suo lavoro satirico che piaceva tanto al Peppo [Giuseppe Pontiggia, il fratello di Neri], ma io non l’ho letto. Sicché il tuo Thomas More, che “a scendere se la sarebbe cavata da solo”, è stato una sorpresa» (il riferimento è alla nota battuta di More, che chiedeva al boia di sorreggerlo mentre saliva sul patibolo e lo rassicurava che dopo non avrebbe più avuto bisogno di alcun aiuto).
Un’altra nota caratteristica di Giampiero Neri era la sua personale riflessione sulla fede, che aveva una naturale discrezione tutta lombarda, anzi direi brianzola, che si vede in un altro biglietto dell’aprile del 2016. L’occasione è il dialogo evangelico in cui Pietro dichiara che sarà sempre fedele a Gesù, che invece gli annuncia il tradimento. Il biglietto merita di essere riportato per intero: «non riuscivo a vedere la coerenza nella risposta di Gesù, rispetto a Pietro. Sono stato a pensare un po’, poi mi sono detto, “capirò domani”. Invece non ho capito neanche il giorno dopo e credo di aver capito soltanto il terzo o quarto giorno. La risposta di Gesù a Pietro in altre parole è questa: tu dici che non andrai via da me, ma soltanto Dio Padre sa quello che tu farai. Solo lui conosce quello che succederà. Io vi ho scelto come discepoli, ma uno di voi mi tradirà. Bene, ieri stavo andando a Messa con mia moglie, che ha da pochi giorni compiuto 94 anni, e volevo gloriarmi di quello che avevo pensato. Le ho ripetuto brevemente il passo di S. Giovanni e lei in tutta semplicità mi ha detto: “Dovevano fare la volontà di Dio Padre”. Ci sono rimasto male. La mia vanagloria è stata sistemata. Semmai è stata messa in evidenza la mia ignoranza. So che tu perdonerai la mia mancanza e anzi ne godremo insieme a gloria di Dio. Perché non devo dirlo? Perché è già stato detto? Nel nostro ambito, è molto meglio».
Non ho avuto occasione di conoscere bene la moglie di Giampiero, ma in queste righe si intravede una condivisione profonda e delicata, come appare anche in un altro commento: «leggerò questo scritto a mia moglie, sicuramente interessata. Lo leggeremo insieme, lei e io, e mi sembrerà di ritornare ai tempi dei primi cristiani». Queste parole sono di un biglietto del 18 febbraio 2013. La data è importante, perché sono le settimane tra la rinuncia di Papa Benedetto e l’elezione di Papa Francesco. Ricordo una conversazione nella sua casa di Piazzale Libia di poco successiva alle dimissioni di Benedetto, dopo la quale avevo fatto avere a Giampiero una lezione magistrale tenuta da Benedetto l’8 febbraio presso il Seminario di Roma. Ecco il commento: «l’allocuzione che mi hai dato del Papa ai preti di Roma mi ha colpito moltissimo. È bellissima. Meno male che ho potuto leggerla. Avrei avuto del Papa una opinione sbagliata, del tutto superficiale. Ma quando mai riusciamo ad avere una opinione men che superficiale in questo mondo che va così in fretta, secondo i comandamenti del demonio? Giudicare superficialmente è proprio quello che vuole il demonio» (si tratta, sempre per gli amici di Neri, di una nota a piè pagina dell’aforisma del Professor Fumagalli «la velocità è diabolica»).
«L’arrivo di Papa Francesco ha scosso un po’ tutti», dice un altro biglietto del gennaio 2014, nel quale descrive l’entusiasmo di alcuni famigliari: «Figurati che ricordando un detto di Goethe, “Se vuoi conoscere un Autore, vai dove ha vissuto”, ha voluto andare a Buenos Aires e sono andati nelle vacanze di Natale. Ogni volta che parla mi aspetto qualcosa di nuovo e di profondo. Anche il suo “buon pranzo” è pieno di significato».
Nello stesso biglietto, senza soluzione di continuità e con il suo tipico stile di conversazione e divagazione, si legge: «Per quanto mi riguarda sto lavorando a un nuovo libro sempre sulla linea del “Fumagalli” e vado avanti con calma. Ho da leggere una vita di Cristo del Ricciotti, una edizione che ho trovato del 1944, che mi interessa moltissimo per diversi aspetti. È stato anche un libro che ha letto Mussolini nel periodo del suo internamento a Ponza dopo il colpo di stato del 25 luglio ’43. Penso che la Provvidenza ci sia (la c’è, la c’è la Provvidenza, e che Dio lo perdoni per il modo in cui lo dice, come appunto dice il Manzoni). Ci sarebbe molto da dire e io spero che ci sarà il modo, a tu per tu, ma in fondo, anche così, meglio di niente. Ti ho pensato in questo tempo e ho pregato per te. Grazie delle tue preghiere».
La fede per Giampiero Neri era manzionana, qualcosa di concreto, non un tema solo culturale o speculativo. Rileggo un biglietto di fine aprile del 2014: «In questi giorni sono stato in Duomo per confessarmi, volevo confessarmi e nella Chiesa di viale Lazio mancavano i sacerdoti, e ne ho avuto una tale impressione di grazia rasserenante, di forza, di fiducia, che ne sono ancora preso, e con chi ne posso parlare se non con te e pochi altri? Il mio lavoro va avanti, con molti dubbi e incertezze. Vale sempre quello che mi diceva il prof. Fumagalli, “Arriva uno e mi dà 10, arriva un altro e mi dà zero”».
«È stato qui don Umberto stamattina», mi raccontò una volta che ero andato a trovarlo, al suo rientro dal Policlinico. Si riferiva, e lo faceva con una luce di gioia negli occhi, al sacerdote che, di poco più giovane di lui, l’aveva aiutato a riscoprire la vita di fede all’inizio degli anni 2000. In quelle nostre ultime conversazioni i temi erano i più vari. Ricordo la risata con cui interruppe la lettura ad alta voce del manoscritto di Utopie, nel passo in cui descrive l’amicizia adolescenziale con Augusto Tettamanti: «ci eravamo dati dei soprannomi. Il mio era Lampirius, per le mie conoscenze entomologiche. In casa ne avevano approfittato per riderne fra loro. Mio padre deformava il nome in dialetto: “Lampadari”». La stanza, a una certa ora del primo pomeriggio, era invasa dal sole invernale, che si muoveva attraverso le persiane e illuminava i quadri sulla parete, tra i quali il ritratto di due uccelli blu che fu poi scelto per la copertina di Utopie. Il tutto è condensato nella copertina di Mme Webb che pubblicava in anteprima proprio questo testo, a gennaio 2023 (la foto è di Alessandro Rivali, in qualche modo l’erede di Neri nel panorama italiano).
È vero che nel Professor Fumagalli si legge che «l’uomo raggiunge il vertice del camuffamento soprattutto con la parola», ma Giampiero Neri amava ed era affascinato dalle parole. Ne ebbi una conferma quando, in ospedale, gli confidai che non riuscivo a togliermi l’idea strampalata che il “neri” del suo primo vero fosse un vocativo: «Cosa è stato di quei piccoli segni, neri, immagine e somiglianza di un impegno continuo?». Ovviamente negò in modo netto, ma mi parve divertito dall’ipotesi, proprio per il suo interesse per la parola, per il suono, per il senso, per la verità e l’ambiguità di ogni parola.
I silenzi e le parole degli ultimi giorni furono semplici e affettuose, anche quelle liturgiche della messa celebrata nella sua stanza piena di luce, un pomeriggio di gennaio, con Giampiero in poltrona e i suoi figli intorno. O quando, già nell’agonia, recitammo con alcuni amici e famigliari il rosario intorno al suo letto. Ricordo le sue parole di congedo, e la luce negli occhi mentre le pronunciava poco prima della fine: «ci vediamo ancora».