martedì 13 novembre 2018
È l'azienda che progettò i forni utilizzati nei campi di sterminio e produsse i sistemi delle camere a gas. Una pagina nera ricostruita grazie all’aiuto di uno dei figli dei proprietari
I forni crematori di Auschwitz

I forni crematori di Auschwitz

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Nel marzo 2017 si inaugura ad Auschwitz una mostra sulla "Topf e figli", l’azienda che produsse e perfezionò i forni crematori e i sistemi di ventilazione per le camere a gas usati nel campo. Un solo membro della famiglia Topf è presente, Hartmut, ormai ottantatreenne. Da oltre trent’anni contribuisce a mettere in luce le responsabilità dell’azienda della sua famiglia nello sterminio di milioni di esseri umani. Responsabilità emerse già nel dopoguerra, quando i cinegiornali di tutto il mondo hanno ripreso il logo dell’azienda inciso sui forni crematori di Auschwitz e il giovanissimo Hartmut ha saputo che cosa producesse l’azienda della sua famiglia. Una storia che Karen Bartlet racconta in Gli architetti di Auschwitz. La vera storia della famiglia che progettò l’orrore dei campi di concentramento nazisti (Newton Compton, pagine 320, euro 12,90). Bartlet è una giornalista e scrittrice inglese, già autrice, in collaborazione con Eva Schloss, di Sopravvissuta ad Auschwitz, un libro anch’esso tradotto in italiano da Newton Compton.

Con questo libro affronta non più una memoria, ma la ricostruzione dettagliata della storia dell’azienda tedesca 'Topf e figli', del passaggio di quest’azienda a conduzione famigliare dalla produzione di impianti per la lavorazione della birra a quella di forni crematori sempre più grandi e sofisticati per le necessità dei campi di sterminio e di impianti per la ventilazione delle camere a gas. Accanto ai membri della famiglia Topf anche gli ingegneri e i progettisti che si impegnarono in questa produzione, i loro rapporti stretti con i nazisti, in particolare col comandante del campo di Auschwitz, Höss, il loro destino successivo alla sconfitta. Le fonti su cui Karen Bartlett si è basata sono l’archivio della 'Topf e Figli', ospitato all’Archivio di Stato della Turingia a Weimar, i documenti e le foto contenuti nel 'Sito commemorativo Topf e Figli' a Erfurt e quelli presenti nel sito di Buchenwald ed Auschwitz, oltre all’archivio della famiglia. Un libro di storia, quindi, basato su fonti rigorosamente d’archivio, non un romanzo. E vale la pena di sottolinearlo, dal momento che in questo volume non si parla solo di forni crematori, destinati ai morti, ma anche di camere a gas, destinate invece a chi ancora non era morto.

Quelle stesse camere a gas accuratamente distrutte dai nazisti quando abbandonano i campi ed altrettanto accuratamente negate dai negazionisti, loro eredi. La storia dell’azienda è una storia di uomini comuni e di come la normalità può diventare complicità nel genocidio. Le premesse di questa scelta sono nell’anno della presa del potere da parte di Hitler, il 1933, quando i fratelli Topf proprietari della ditta e i loro manager, in un momento del ghetto. di grave crisi, aderiscono al partito nazista. La vera e propria collaborazione con i nazisti dell’azienda, fino ad allora una fiorente fabbrica locale nata nel 1878 e impegnata nelle attrezzature per la produzione della birra, inizia nel 1939, quando l’ingegner Kurt Prüfer realizza un innovativo forno mobile di cremazione riscaldato a olio. Tre di questi forni sono destinati al campo di Buchenwald, per sopperire al crescente numero di cadaveri da incenerire. Nell’agosto 1940 fu installato il primo forno ad Auschwitz. Nel 1941, la ditta rifornisce già quattro campi: Auschwitz, Buchenwald, Mauthausen, Dachau. Prüfer è orgoglioso della sua invenzione: «Questi forni sono davvero rivoluzionari – scrive al direttore Ernst Wolfgang Topf – e posso supporre che mi concederete un bonus per il lavoro che ho fatto».

Un motivo, questo dell’orgoglio per il proprio lavoro, che ritroviamo fino alla fine della guerra e oltre, anche nelle difese giudiziarie del dopoguerra, e che ci riporta alla mente la banalità del male di cui parla Hannah Arendt. I rapporti con i nazisti e con i campi, in particolare con Auschwitz, sono stretti: operai della ditta sono presenti nei campi per l’installazione e la manutenzione dei forni, e con altri dirigenti dell’azienda Prüfer incontra più volte le Ss ad Auschwitz per pianificare gli ampliamenti dei forni. Inoltre nel 1943 l’azienda si impegna nel perfezionamento del sistema di ventilazione per le camere a gas di Auschwitz. Prüfer conferma in un interrogatorio a Mosca di essere stato informato «che in queste camere a gas venivano uccisi prigionieri utilizzando fumi di cianuro». Mentre la sconfitta nazista si faceva sempre più vicina e prevedibile, la Topf non ridusse la sua partecipazione ai meccanismi dello sterminio. All’inizio del 1945, mentre Auschwitz veniva liberata, Prüfer lavorava infatti a un vasto progetto per l’installazione delle camere a gas e dei forni a Mauthausen, che la sconfitta nazista rese inutile.

Uno dei fratelli Topf, Ludwig, si suicidò, l’altro restò nella zona americana dove elaborò una difesa volta a giustificare l’operato suo e dell’azienda. Intanto questa era posta sotto l’amministrazione sovietica. Prüfer con altri dirigenti fu condannato dai sovietici a venticinque anni di carcere. Morì mentre era detenuto nel 1952. Gli altri furono scarcerati in seguito ad un’amnistia nel 1955. Ernst Wolfgang Topf fu arrestato dagli americani e poi rilasciato per mancanza di prove. Dal 1946 al 1950 fu sottoposto a un processo di denazificazione, che fu archiviato perché «non aveva mai ricoperto nessun incarico o grado nel partito». Morì libero nel 1970. Solo dopo l’89 la riesumazione degli interrogatori fatti dai sovietici a Prüfer agli altri dirigenti avrebbero provato in modo inconfutabile la portata del coinvolgimento della 'Topf e Figli' nel processo di sterminio. Ma uno di questi 'figli', Hartmut Topf, ha contribuito attivamente a far emergere la memoria di quel coinvolgimento: «Ho ereditato il nome. Fortunatamente non ho ereditato l’azienda. Ma sentii di avere un obbligo. Da bambino mi vantavo di essere un Topf, e ora sento che è mio dovere raccontare la storia orribile della loro infamia. Devo dare il mio contributo. Questa è la mia responsabilità».

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