E sistono più modi di interpretare il calcio. C’è chi - vedi Kakà e Ibrahimovic - punta al massimo e non può fare a meno di alzare l’asticella del suo ingaggio e chi è il caso di Damiano Tommasi - vive il football solo per passione e come esperienza di vita. A 35 anni, novello Marco Polo, è andato a giocare in Cina per uno stipendio di 40mila dollari al mese (alla Roma per un anno si accontentò anche del “minimo sindacale” di 1.500 euro).
Domanda di rito: perché la Cina? «Sono coincise alcune cose. La fine del contratto con il QPR, la volontà di continuare a giocare, all’estero o in Italia (ma solo al Verona), e la proposta dalla squadra del Tianjin Teda (circa 60 km da Pechino) che a marzo si apprestava a iniziare la sua nuova stagione. Ho deciso di coglierla al volo: è una grande opportunità: nel prossimo futuro, si voglia o no, dovremo tutti confrontarci con la Cina e il suo popolo».
I numeri di Tommasi: 10 gare con tre vittorie nelle prime tre giornate (ora è 4° in classifica a 3 punti dalla vetta) e un gol con la maglia del Tianjin, dedicato all’Abruzzo. «Non ho dedicato il gol alle “vittime” del terremoto... Parlare solo di calcio quando si vivono eventi di questo tipo lo reputo molto riduttivo e fuorviante. Vorrei dedicare ben altro a quanti stanno vivendo questo momento così difficile».
Come sono i presidenti dei club in Cina? Patron-mecenati come in Italia o più imprenditori? «Un mix di imprenditori e gruppi dirigenti. Anche una parte di intervento pubblico è presente. Sono qui da poco: non conosco le varie realtà in modo approfondito».
Gli sponsor cinesi come si avvicinano al football: un “prodotto” certamente nuovo in questo mercato? «C’è molto interesse perché fa parte del grande business dei Paesi europei e per questo molte aziende sono attente al movimento. La prima divisione da quest’anno si chiama “Pirelli Super League” e questo la dice lunga sul legame calcio-EuropaCina. E c’è il Governo che nell’ottica di rendere più competitiva la Nazionale sta investendo molto, soprattutto nel calcio giovanile».
Verona, Roma, Levante (in Spagna), QPR a Londra, Tianjin: accumula esperienze di vita o crede che le serviranno per un futuro da allenatore o da dirigente? «Non so quale strada prenderò una volta appese le scarpe al chiodo: di sicuro queste esperienze mi stanno aiutando molto a livello personale. L’esperienza diretta nella mia professione potrebbe essere uno stimolo a rimanere nell’ambiente ma non certo un obbligo».
Lei ha sempre sottolineato l’importanza dello spogliatoio: a Trigoria parlava dell’opportunità di confrontarsi con persone che avevano altre usanze. Come gestisce i rapporti adesso che è lo “straniero”? «Vivo questa esperienza dopo quella di “padrone di casa” e ho il rammarico di non aver accolto a dovere chi veniva da fuori. Tante sono le difficoltà, le perplessità e i dubbi che si hanno da ospite: essere ricevuti bene è fondamentale. Ovunque sono stato mi hanno accolto benissimo e in tutti questi posti so che tornerò con molto piacere».
Quanto è stata importante la famiglia nelle sue decisioni? «Fondamentale. Se mia moglie non se la fosse sentita di rimanere in Italia con 4 figli non avrei mai pensato di partire. Credo che questa esperienza serva anche alle mie figlie più grandi (12 e 10 anni): capire che esiste un altro mondo, molto diverso, sarà di aiuto nella loro crescita».