C’è stato un periodo in cui il suo nome era sinonimo dell’Italia vincente. Dal dicembre del 1985 al marzo del 1998: tredici anni di imprese, chiacchiere e spintoni. Alberto Tomba lo sciatore, il campione, l’uomo dal sorriso facile e dai saliscendi talvolta turbolenti, anche nella vita privata. Senza di lui, gli anni Novanta del benessere all’italiana sarebbero stati un po’ meno divertenti e appassionanti. È stato un fuoriclasse, forse, di più: un ragazzo come tanti con in tasca un talento infinito. Ancor più grande considerando che l’Italia dello sci oggi fatica ad imporsi, sia a livello di risultati sia di personaggi.
Alberto Tomba, 16 dicembre 1985, il debutto in Coppa del mondo nello slalom di Madonna di Campiglio: cosa ricorda di quel giorno?«Partivo con un pettorale molto alto, ero all’inizio, nessuno mi conosceva, nessuno si attendeva qualcosa da me. I miei avversari si chiamavano Stenmark, Petrovic, Nilsson, grandissimi sciatori. Ricordo che c’era il sole ed ero teso come un bambino al primo giorno di scuola. Non dovevo dimostrare nulla, dovevo soltanto sciare e fare bene per me stesso più che per gli altri. L’anno dopo è cambiato tutto. Ho cominciato a vincere e sono aumentate le attese nei miei confronti...».
Grazie a lei, lo sci alpino italiano è diventato fenomeno nazional-popolare, tanto che le sue imprese hanno spesso fatto passare in secondo piano il calcio e le sue dirette divagazioni. Traguardo ripetibile?«Credo sia molto difficile. Per seguire le mie gare si fermava il Paese. Nel febbraio del 1988 hanno addirittura interrotto il Festival di Sanremo per collegarsi in diretta con Calgary, in Canada, dove mi giocavo con la medaglia olimpica nello slalom speciale. E meno male che ho vinto, altrimenti chissà cosa avrebbero detto. Vincevo ed ero costretto a vincere, sempre. E quando la stampa non sapeva più cosa raccontare delle mie vittorie metteva il naso nella mia vita privata. Che dire, ora c’è Innerhofer che sta facendo bene, così come Paris nelle discipline veloci, ma mancano due nomi forti come Tomba e Compagnoni...».
Esistono dei rimedi?«Sempre più difficile, perché in Italia c’è il calcio. Al contrario di Paesi come l’Austria, in cui gli atleti di ottimo livello sono tanti e c’è un ricambio continuo, da noi non c’è un grande vivaio dal quale attingere, mancano progetti per far crescere i giovani talenti in questo sport. E poi, c’è il problema della gara. I nostri atleti fanno benissimo in allenamento, ma quando è il momento di fare sul serio c’è qualcosa che li blocca».
Si dice più o meno da sempre: per conquistare le simpatie del pubblico non basta essere un campione. Qual è stato il suo valore aggiunto?«Piacevo perché festeggiavo anche la sconfitta. Sorridevo sempre e dicevo sì a tutti. Mi seguivano ovunque, prima, durante e dopo le gare, quando non avevo nemmeno il tempo di prendere fiato perché dovevo già rispondere alle domande dei giornalisti all’arrivo. Una volta era permesso un po’ tutto, gli atleti erano più avvicinabili e ti capitava anche quello che ti mancava di rispetto. Oggi è un po’ diverso, è tutto più filtrato».
Nel giugno scorso i lettori delle tre principali testate sportive italiane le hanno assegnato il premio di "Atleta del centenario del Coni" con Sara Simeoni. L’affetto che le viene riconosciuto è ancora grandissimo.«E’ stata una giornata bellissima. Io ho avuto la fortuna di vincere negli anni Novanta, un periodo in cui le cose andavano bene un po’ per tutti. Nel nuovo millennio, dopo l’attentato delle Torri Gemelle qualcosa è cambiato. Anche nello sport».
La gente stravedeva per lei, fuori e dentro le piste da sci. Quale prezzo ha dovuto pagare per tutto questo?«Quando vincevo, andava tutto bene. Ma appena sbagliavo qualcosa, erano subito tutti pronti a puntare il dito contro di me. In Italia va così, o ti amano o ti odiano. E nel mio caso c’era anche tanta invidia. In più, non ho mai fatto smentite o repliche e la gente ha spesso pensato che fosse vero quanto leggeva. Vincevo perché facevo i sacrifici, e per questo devo ringraziare mio padre, che mi portava agli allenamenti quando ero piccolo. Non avevo una vita privata. Potevo rimanere in pista per altri due anni o magari prendermi un anno di pausa e rientrare la stagione successiva. E qualcosa ancora potevo comunque portare a casa. Ma ho preferito lasciare tutto, non potevo più sopportare quella pressione».
Non è ancora diventato papà: le piacerebbe?«Poteva accadere anni fa, ma non è successo. Ero sempre in giro per il mondo, non credevo fosse la decisione giusta. E poi non è facile avere qualcuno al tuo fianco che ti accetti per quello che sei e che ti aspetti quando sei via di casa per lavoro. Sono uno scapolone all’Alberto Sordi. Ma se un giorno dovesse capitare, certo che ne sarei felice».
"Ogni mio episodio veniva distorto, ero troppo disponibile, un bonaccione", ha spiegato a Repubblica nel febbraio scorso in merito al suo periodo d’oro sugli sci. Ha sbagliato più lei o le persone di cui si è fidato?«Entrambe le cose. Allora ero giovane, dovevo fidarmi di qualcuno che mi gestisse, che mi seguisse passo dopo passo. A 20 anni prendevo quello che arrivava senza farmi troppe domande, alla buona, non avevo l’esperienza per capire come muovermi. Anche per scegliere a quali domande rispondere e come».
Ha fatto fatica a trovare la sua strada quando si sono spente le luci della ribalta? «No, per niente. Ogni cosa a suo tempo. Ho smesso a 31 anni quando ero ancora giovane, oggi vanno avanti fino ai 40, ma ero tranquillo e sereno. Probabilmente, perché mi sono occupato subito di altro. Poco dopo aver chiuso con le gare, ho girato il film "Alex l’ariete", mi sono divertito. E poi sono andato negli Stati Uniti a fare un tour promozionale. Non ho avuto tempo per pensare a quanto avrei ancora potuto fare in pista e va bene così. Sono ancora molto amato all’estero. Mi trattano come una celebrità e per questo sono spesso in giro per il mondo».
È diventato molto ricco con lo sci? «Quando vincevo, dicevano che pioveva sul bagnato, perché arrivavo da una famiglia benestante. Ma la verità è che ho sbagliato i tempi. Oggi nello sport ai miei livelli si guadagna molto di più».
A distanza di quasi 16 anni dalla sua ultima gara (15 marzo 1998, slalom speciale a Crans-Montana, Svizzera) è ancora richiestissimo sia come testimonial sia come opinionista televisivo. Ha scelto cosa farà da grande?«Sono già grande. Non voglio fare progetti a lungo termine, mi piace continuare a muovermi su più fronti. Partecipo agli eventi che hanno a che fare con lo sci, compro e vendo immobili quando se ne presenta l’occasione, e colleziono bottiglie di vino. Quando facevo le gare, passavo il tempo a girare le cantine delle città che ci ospitavano e oggi la mia collezione conta circa 4.000 bottiglie provenienti da tutto il mondo».
I prossimi impegni?«Dal 22 al 24 dicembre sarò a Foppolo, in provincia di Bergamo, per il Parallelo di Natale, un evento sciistico che quest’anno festeggerà insieme a me i 30 anni dalla mia prima vittoria».
Con altre grandi stelle, lei è tra gli ambasciatori della Fondazione Laureus, che promuove l’attività sportiva contro il disagio giovanile. Cosa legge negli occhi dei ragazzi che incontra?«Molti di loro non erano nemmeno nati quando gareggiavo, ma sono stati coinvolti dai racconti dei loro genitori e hanno cominciato ad appassionarsi guardando su internet i video delle mie vittorie. Sono informatissimi. I ragazzi di oggi sono molto più svegli di quelli della mia generazione. In pochi minuti, sanno tutto di tutti. Nei loro occhi leggo gioia e speranza. La gioia di conoscermi da vicino, ma anche la speranza di ripetere le mie imprese, di costruirsi un futuro con lo sport».
Farà l’“Isola dei famosi” in tv?«Sì, parteciperò all’Isola. Ma l’unica mia isola è la Sardegna, in vacanza, punto e basta. Ogni edizione esce questa notizia falsa e nessuno si preoccupa di contattarmi per la conferma prima di scriverla. Non mi sembra neanche il caso di smentire una notizia che non esiste».
Il 19 dicembre compirà 48 anni. Esprima un desiderio.«Fatto. Ma non vorrà mica che glielo dica, altrimenti poi non si avvera».