Ha avuto coraggio perché ha permesso a molte persone nel mondo, da Nord a Sud, di capire chi c’è dietro un codice a barre, cosa succede nella grande distribuzione, a che prezzo qualcuno paga il piacere di una tazzina di caffé. Raj Patel, studioso delle politiche alimentari, formatosi a Oxford e docente nelle università di KwaZulu-Natal (Sudafrica) e Berkeley, è un «ex» della Banca Mondiale e dell’Organizzazione Mondiale del Commercio ( Wto): appena uscitone, ha deciso di impegnarsi contro queste strutture e il suo I padroni del cibo (Feltrinelli, pp. 286, euro 16) ne è l’esempio illuminante. Dati e argomentazioni stringenti su cibo e globalizzazione che alzano il velo, ad esempio, sull’uso della soia nell’industria alimentare, sull’abuso dei «semi miracolosi », sullo strapotere dell’agrobusiness . Temi non lontani dall’agenda politica di questi giorni al G8 dell’Aquila, e dal prossimo World Food Forum di Roma, in novembre, appuntamenti dai quali anche Patel attende soluzioni: «I grandi della Terra dovrebbero dare seguito a quanto disse Bill Clinton, ammettendo di aver sbagliato nel ritenere che il cibo sia solo una delle tante materie prime. Il cibo è un diritto dell’uomo e il modo migliore per non negarlo a nessuno è produrlo e distribuirlo equamente liberandolo dai valori di Borsa che lo definiscono commodity, materia prima. Naturalmente, è improbabile che i Paesi più ricchi impostino il dialogo su questi presupposti, ma il nostro dovere di cittadini è fare in modo che ci arrivino».
Per il recente rapporto Fao più di un miliardo di uomini soffre la fame, e di costoro sempre più vivono nei Paesi ricchi. Non era mai successo prima. Com’è possibile? «Il cibo è sottoposto alle leggi del mercato internazionale, alle fluttuazioni di prezzo, alle speculazioni. Il Nobel Amartya Sen ha osservato che c’è una somiglianza tra il fenomeno attuale e le carestie sino all’ultima guerra. Allora, nonostante ci fosse sempre cibo nelle vicinanze, le persone non potevano accedervi perché un drappello di speculatori controllava le derrate. La finanza internazionale fa lo stesso, adesso, su larga scala».
La sua inchiesta è una denuncia rara e coraggiosa delle multinazionali. Quando riusciremo a invertire la tendenza secondo cui chi mangia «consuma»? «In Italia è già accaduto e Slow Food cerca di portare avanti queste ragioni. Ma in tutto il mondo si diffonde sempre più un approccio politico e non semplicemente estetico al cibo. La produzione di riso gestita dai movimenti locali è un buon passo in questa direzione».
Perché le materie prime agricole oggi costano più che in passato? E perché costano molto di più nei Paesi in via di sviluppo? «Ancora no, ma nel futuro costeranno certo di più. Le cause sono il collasso ambientale, il cambiamento climatico, la penuria d’acqua e il rincaro energetico. E, visto che il mondo è un mercato unico, i prezzi si innalzeranno ovunque».
Sempre più pandemie si sviluppano da un errore nella catena alimentare, forzata dall’uomo. La situazione tenderà a peggiorare? «È innegabile che le paure maggiori degli ultimi anni vengano dalla produzione industriale su larga scala. Influenza suina e aviaria sono creature delle multinazionali del cibo che preparano il terreno a questo tipo di malattie, dove la mancanza di regolamentazione e trasparenza (avversata dall’industria del cibo) significa una sola cosa: se non sappiamo esattamente ciò che stiamo mangiando (e più il cibo è trattato, più davvero non lo sappiamo), stiamo diventando cavie di esperimenti pericolosi dentro i nostri stessi corpi».
Si parla di sicurezza alimentare. Cos’è e perché va perseguita? «Facciamo un esempio: lo sciroppo di mais si usa spessissimo, ma un accademico americano ha dimostrato che è un veleno. È necessario regolarizzare il sistema alimentare non in base ai profitti delle aziende, ma servendoci dei principi precauzionali della scienza».
Nei Paesi ricchi come possiamo opporci alla strumentalizzazione del consumatore o alla stigmatizzazione delle persone obese? Come possiamo cambiare atteggiamento nei confronti del cibo? «Tanto chi vive nei Paesi ricchi, quanto chi vive nei Paesi poveri è sfruttato dalle multinazionali, naturalmente in modo diverso. Una delle soluzioni è far convergere i consumatori in un’azione politica ed economica condivisa e alternativa. Per quanto riguarda la paura dell’obesità, aumentano le associazioni che hanno come obiettivo il cambiamento del giudizio sulle persone grasse, accompagnandolo con nuove politiche culturali sul cibo».
Per Pascal Lamy, direttore del Wto, nel commercio internazionale la situazione è grave e le conseguenze sociali saranno gravissime. Qual è il suo parere? «La situazione è terribilmente seria, ma non per le motivazioni che Lamy adduce. Nella sua visione, per prevenire la fame bisogna incrementare il commercio. Non è lo stesso punto di vista dei Paesi in via di sviluppo, che finora hanno importato cibo ma hanno capito che solo aumentando la produzione locale saranno immuni dalle speculazioni sui prezzi».
Lei ha lavorato per il Wto. Perché poi ha smesso la collaborazione? «Non è stato un impegno molto lungo, il mio, nel Wto. Tuttavia lungo abbastanza per riscontrare un dogmatismo economico diffuso. Il Wto rischia di essere solo un’invenzione burocratica».