Siamo in grado di elaborare un progetto credibile (socialmente e culturalmente accettabile) per un servizio pubblico destinato al presente e al futuro, oppure dovremmo prendere atto che quel concetto, di cui abbiamo ricostruito la genealogia, ha ormai perso di senso, con la trasformazione tanto della società quanto del sistema mediale, e che lo vedremo inevitabilmente tramontare? La nozione di servizio pubblico è il frutto di una complessa negoziazione fra esigenze e spinte ideali variegate, si adatta a contesti geografici e culturali differenti, muta nel corso del tempo: se alle origini esso è nato soprattutto come risposta al “fallimento del mercato”, implicita nelle caratteristiche stesse del broadcasting, e come alternativa a un modello puramente commerciale, riempiendosi di una progettualità concreta fortemente caratterizzata da una missione pedagogica, da un tono paternalistico e da un’esigenza nazionalistica, dopo la fine dell’età della scarsità e dei monopoli e l’irrompere in Europa di nuovi modelli (basati sulla raccolta pubblicitaria, prima, e sulla sottoscrizione, poi) e di un’abbondanza progressivamente sempre più intensa di offerte, piattaforme, contenuti e reti, il concetto stesso di servizio pubblico entra in uno stato di crisi permanente. Il ripensamento complessivo dell’idea di servizio pubblico - pur a partire dalla sua storia e dai suoi valori - non è un’opzione, ma una necessità, se si intende evitare quel progressivo logoramento di legittimità che ne caratterizza le vicissitudini più recenti. Abbiamo cercato di evidenziare gli spazi e le ragioni per un progetto di servizio pubblico rinnovato e adatto all’età dell’abbondanza, della convergenza mediale, della digitalizzazione. Gli ambiti di azione di un servizio pubblico moderno sono diversi, ma ruotano tutti attorno all’idea che il public service broadcasting può “fare la differenza”, come in passato e forse, persino, più radicalmente. Il panorama mediale contemporaneo, caratterizzato dalla progressiva frammentazione del-l’offerta, da una più marcata asincronia nei consumi, da una decisa “privatizzazione” dei contenuti più pregiati, contribuisce a legittimare un servizio pubblico destinato a rappresentare e a contribuire a integrare la comunità nazionale, a fare degli standard qualitativi per tutti i suoi generi dei bechmark e degli stimoli per l’intero mercato, a rivolgersi a un pubblico di cittadini e non semplicemente di spettatori o clienti, commisurando con equilibrio le esigenze di qualità e popolarità, a riattivare la memoria condivisa e a rendere largamente accessibili fonti essenziali per gli storici di domani quali gli audiovisivi e il flusso televisivo in particolare, a fare, infine, da volano alle capacità di narrazione, di intrattenimento e di informazione del Paese... Ma la condizione iniziale per questo processo di ripensamento e ri-progettazione consiste nella capacità di riportare a un senso condiviso la nozione stessa di servizio pubblico che, nell’età dello sfaldamento e della liquefazione di tutte le istituzioni, rischia di essere spazzata via come inutile e anacronistica. Non solo perché nel caso dell’Italia il tema della governance è quello più tristemente dolente, ma per una ragione più generale, occorre cominciare proprio da qui. Come ha osservato James Quilligan, questa è l’età nella quale i beni e i servizi pubblici sono tali spesso solo di nome, perché agiscono e sono amministrati in direzione sempre più privatistica (Quilligan 2012; Barca 2016). Se il public service broadcasting finisce per identificarsi semplicemente con una “televisione di Stato”, magari controllata - come accade in Italia - dal partito uscito vittorioso alle ultime elezioni, allora esso smette di avere un senso e una funzione. Meccanismi di governance adatti all’oggi devono commisurare l’esigenza di rappresentanza della società (più che dei partiti) con le necessità di professionalità di un management consapevole della duplice natura - economica ma soprattutto “culturale”, nel senso più ampio del termine - del servizio pubblico. Il problema più grosso e urgente del servizio pubblico in Italia è un deficit di legittimità. Il servizio pubblico deve essere ripensato sempre di più come un “bene comune”, poiché una buona qualità della comunicazione, una sfera pubblica aperta e trasparente, un volano per la crescita della creatività nazionale, un sistema che produce qualità nell’informare, nel raccontare e rappresentare la realtà, nonché nel tenere discretamente compagnia a tutti i suoi spettatori intesi in primo luogo come cittadini, sono valori per nulla scontati e garantiti, da difendere oggi come ieri.