Paola Bertelli, con Stefano Pasquini gli attori-contadini delle Ariette
«Dio ha scelto di nascere… non a Roma, che era la capitale dell’Impero… ma in una periferia quasi invisibile, anzi, piuttosto malfamata». Così papa Francesco. «Non nasce teatro laddove la vita è piena… ma dove ci sono ferite, dei vuoti». Questo invece uno degli assunti più celebri dell’artista francese che nel secolo scorso teorizzò e praticò un teatro essenziale, rigoroso, sacrale che ripudiasse e fuggisse dall’egemonia di una centralità culturale per esplorare e trarre linfa vitale dai margini, dai confini, dalle periferie: Jacques Copeau.
Al di là di un accostamento che può sembrare ardito e irriverente è indubbio che così come il Verbo divino si è incarnato nell’umiltà, in una capanna e non nella reggia dei potenti, rivolgendosi non ai re ma ai reietti, anche la verità teatrale e artistica, persa ormai da secoli l’acropoli e l’agorà, sedimenta e sboccia tra le crepe delle “periferie esistenziali”, come direbbe Francesco, di certo non solo urbane ma intese in senso molto figurato.
Sul vertiginoso crinale di «un’anima sola con se stessa», come invece direbbe Emily Dickinson, si sono avventurati in tanti in questi ultimi venti anni: dal Marco Paolini del Bestiario Veneto, all’Ascanio Celestini di Radio Clandestina e di Fabbrica, alla Veronica Cruciani con la sua esperienza di direttore artistico al Quarticciolo ai confini della Capitale, a quella performer esile e spietata che forse piacerebbe a Pasolini, l’Eleonora Danco di Ero purissima, Intrattenimento violento, N-capace, che dal 10 marzo al Teatro India di Roma col suo nuovo spettacolo dEversivo di certo confermerà la sua vena di poetessa di crudezza e disperazione che si sporca le mani con la vita degli esclusi.
Ma questi nomi sono solo la punta di un iceberg molto frastagliato e ovviamente in gran parte sommerso. Sicuramente però su una punta delle sue numerose cuspidi svettano da quasi trent’anni Stefano Pasquini e Paola Berselli, gli storici “contadini-attori” (e viceversa), la coppia che, con i tre decenni di vita insieme rurale e teatrale, ha creato innesti di arte, esperienza ed esistenza, come l’ormai mitico spettacolo-simposio-rito Teatro da Mangiare. Stefano e Paola, marito e moglie, dal 1989 vivono e creano molto al di là delle periferie, in aperta campagna, tra i morbidi colli bolognesi, nella valle del Samoggia, in località Castello di Serravalle, dove risiede l’azienda agricola e il loro teatro: Le Ariette. Uno spazio volutamente fuori porta, fuori mano, fuori dai circuiti e dal mondo, decisamente 'out'. Outcast e autonomo ma non autarchico perché il loro teatro, spesso fatto in casa e nelle case, è aperto a tutte le problematiche dell’animo umano, nelle cui ferite si affaccia abbattendo ogni barriera fra artista e spettatore e ribaltando lo spazio scenico.
È un teatro che affonda le radici nella terra e da essa trae ispirazione e nutrimento fisico e metafisico. Le mani tra le zolle o tra gli impasti di acqua e farina e il cuore tra le sommità della poesia, ma non è una dimensione schizofrenica perché Stefano e Paola sono in grado di estrarre sapere dal sapore, cultura dalla coltura. La loro passione per il teatro, infatti, ha origine nello stupore per i piccoli ma significativi accadimenti del ciclo vitale, dalla coltivazione all’allevamento, con tutte le metamorfosi innescate dalla natura e dal lavoro dell’uomo, fino al prodotto ultimo, il cibo, destinato a sua volta a un ulteriore trasformazione attraverso l’assimilazione.
Quasi in ogni spettacolo le Ariette creano un pasto, sempre comunque si danno in pasto, come accade ad esempio in uno dei loro ultimi lavori, Tutto quello che so del grano (prossime repliche dal 19 al 21 gennaio a Matera, Teatri uniti Basilicata) in cui condividono, come in un’agape fraterna, ricordi, sentimenti, vino e schiacciata (puntualmente preparata e cotta dal vivo), per indagare sul confine labile fra teatro e vita e sulla gratuità dell’amore, unico lievito della conoscenza.
Partecipazione e condivisione sono poi i propulsori della sfida quotidiana che intraprende un artista, cantore, narratore, operatore sociale, animatore, non facile da definire, ma di certo un atleta e un virtuoso del racconto e della memoria che si sta ritagliando un posto sull’iceberg dei teatranti dei confini. Il suo nome è Simone Saccucci, il suo luogo di origine è Guidonia Montecelio, periferia est di Roma, ma si trova a suo agio praticamente ovunque ci sia uno spazio a cui poter conferire senso: da una miniera di travertino a un cementificio, da Scampia a Sheffield passando per Villaggio Prenestino. Di lui si sono interessati radio nazionali e BBC perché in pochissimi anni e con soli tre spettacoli al suo attivo sta provando a innestare linfa nuova e vitale nelle aree extra-urbane con cui entra in contatto consapevole, spesso terre di nessuno prive di un’anima e che la narrazione contribuisce a far nascere.
«Se non abbiamo piazze ma solo parcheggi, vorrà dire che useremo i parcheggi come piazze». È il motto, infatti, di Collettivo48, un gruppo di ragazzi tra i 17 e i 35 anni, di cui Saccucci fa parte, che rianimano spazi vuoti, anonimi e indifferenti con diversi progetti l’ultimo dei quali è Macelleria F.lli Saccucci in cui il giovane romano (alle prese nel 2017 con impegni diversi che vanno dall’Università di Cagliari ai folk club di Sheffield e Manchester) racconta e canta con la sua inseparabile chitarra «la storia di un macellaio che voleva essere cowboy». È un viaggio di ricordi e dolori, ironie e speranze in cui il cantastorie sintetizza con fascino mirabile la metafora del conflitto fra vita e sogno, realtà e desiderio.
È la parabola di chi, pur vivendo lontano dagli ombelichi del mondo, riesce a essere eroe e non solo per un giorno. «Possono le storie migliorare una periferia? », si domanda Simone Saccucci che ancora non si è dato una risposta. Assolutamente sì, quando sono storie che vanno al di là, che partono dalla pelle ma puntano al cuore.