Il bello delle fiabe è sempre stata la morale, in quanto possibilità di trovare un senso a ciò che la storia ha raccontato. Una morale che oggi può trasformarsi in una sorta di riflessione sulla necessità di ritornare a scoprire il forte legame con il Creato, l’unico modo per scoprire il mistero del Creatore. E’ quello che ha fatto Susanna Tamaro, ritornando dopo dieci anni a scrivere una fiaba, senza però caratterizzarla solo per un pubblico di ragazzini. Il suo nuovo libro che va in libreria domani,
Il grande albero (Salani, pagine 154, euro 12,00), si pone in una linea trasversale che accompagna ragazzi e adulti in questa attraversata, nel tempo e nello spazio, seguendo la vita di un albero, un grande abete, «che non è mai particolarmente eccitante. Per loro natura sono costretti a stare fermi nello stesso posto». Susanna Tamaro trova in questa storia una felicità espressiva, quella di essere totalmente nella natura e di percepirne la bellezza e lo stupore. Dice la la scrittrice: «La sensazione e l’emozione che ho avuto nello scrivere questo libro sono paragonabili soltanto a quello che ho provato scrivendo sedici anni fa, Va’ dove ti porta il cuore. La letteratura ha bisogno di parlare all’anima. In un tempo di crisi e di cose opache c’è bisogno di qualcosa di luminoso ». Il libro si avvia con un andamento lento, tra la neve dei grandi boschi e racconta di come cresce il grande albero, di come riesce a resistere, a farsi tanto forte da diventare una sorta di gigante. «I primi cent’anni di vita furono, tutto sommato, piuttosto tranquilli. Il grande albero cresceva, come crescevano e morivano gli alberi intorno a lui». E solo in una fiaba, nella radura dove è cresciuto il grande albero possono arrivare l’Imperatore d’Austria, Francesco Giuseppe e la principessa Sissi, si possono intuire gli echi della guerra («Ormai nessuno più parlava d’amore, nessuno sognava. Una grande cappa di tristezza era calata sulla radura e sul bosco») e nello scorrere del tempo possono arrivare anche le motoseghe, che si portano via il grande albero. Da qui, in poi, la fiaba accelera il suo ritmo e ci riserva non poche sorprese, come ad esempio quella di un ritratto molto intenso di un Papa. Dice la Tamaro: «Inizialmente avevo pensato di tenere la figura del Pontefice sul vago, senza identificarlo troppo. Poi ho deciso che era giusto riferirlo a Giovanni Paolo II, per il quale nutro un grande affetto e mi ha sempre affascinato il rapporto diretto e stretto che ha avuto con la natura». È un Papa stanco, malato, con le forze che ormai lo stanno abbandonando quello che ci presenta la Tamaro. «C’era nostalgia nel suo cuore e quando la nostalgia prende il sopravvento vuol dire che il tempo dell’azione è concluso. Avrebbe voluto essere sui suoi amati monti Tatra, riavere il vigore e la forza della sua giovinezza». Eppure tutto svanisce quando entra nella sala in cui ha convocato i capi di tutte le religioni del mondo. Dice la scrittrice: «Grazie alle grandi conquiste del progresso, l’uomo si è convinto di essere Dio, ma non poteva essere Dio. Da questa sua onnipotenza pasticciona sono nate e continuano a nascere tante catastrofi. Anche tra le persone soffia ormai il vento della discarica. Non c’è più rispetto, né amore, né cura nei rapporti». Dall’incontro emerge una necessità: «Pur tra le diversità di cultura, esperienze e visioni del mondo tutti i presenti concordarono su un punto: il nome di Dio doveva tornare Santo ». Ci sono aspetti anche simpatici e divertenti che ricordano la sponta- nea naturalezza di Papa Woityla, il suo rapporto con uno scoiattolo che vive nel grande albero, che svetta nel piazzale di Piazza San Pietro. Mentre i servizi di sicurezza sono pronti a colpire l’animaletto, credendolo potenzialmente pericoloso, il Papa riesce a giocare anche con lui. Un segno di questa dimensione dello stupore verso il Creato che è stata una sua prerogativa e che Susanna Tamaro auspica come centrale in questo cambiamento: «La nostra vita è come quella degli alberi, il seme si schiude e cerca la luce. Continua a cercarla e a nutrirsi di lei per tutti i suoi giorni. Il seme dell’amore riposa nel cuore di ogni uomo. Può dormire per giorni, per mesi, per anni, ma non è mai morto. Quel seme è l’impronta del Padre Quel seme ci rende tutti fratelli, tutti ugualmente capaci e bisognosi d’amore. E’ necessario riconoscere proprio questo bisogno». Il grande albero diventa anche una grande metafora dell’esistenza, di come la nostra vita ritrovi in quella degli alberi una forte lezione di moralità. Dice la Tamaro: «Senza radici non c’è nutrimento e senza nutrimento non c’è vera vita. Non abbiamo forse ridotto così le nostre esistenze ? Corriamo sempre, corriamo come se fossimo inseguiti, ma da cosa fuggiamo se non dalla nostra paura?». La metafora racconta di una conversione: «Ci vorrebbe davvero un miracolo perché l’uomo riesca a comprendere la propria somiglianza con gli alberi». E il miracolo avviene davvero: il grande albero tagliato dalle motoseghe, ritorna nel suo bosco e ritrova le sue radici e il suo nutrimento. Un miracolo che può fare ciascuno di noi. Lo dice il Papa ed è il nodo centrale di questa favola di Natale, per niente usuale: «Il Signore vi faccia sentire nuovamente parte del creato, vi benedica e restituisca ai vostri occhi, alle vostre menti, ai vostri cuori - da oggi e per sempre la gioia dello stupore».