Il campionato invernale in corso nella cornice insieme avveniristica e tradizionale del Ryogoku Kokugikan, l’Arena nazionale del Sumo, è uno dei tre annuali (gennaio, maggio, settembre) della durata di due-tre settimane che si tengono a Tokyo e che nel calendario delle competizioni si alternano a quelli che alimentano interesse, gossip e scommesse nelle città centrali di Osaka (marzo) Nagoya (luglio) e in quella meridionale di Fukuoka (novembre). Per tutto il torneo il campione nipponico Kotoshogiku dopo un decennio di dominio straniero ha riportato il titolo in Giappone. A poche lunghezze, la leggenda Hakuho, il pigliatutto di origine mongola. Un evento dello sport velato quest’anno di tristezza. Proprio nella grande sala delle competizioni, infatti il 22 dicembre l’Associazione giapponese di Sumo ha tenuto una cerimonia commemorativa per l’ex presidente, deceduto a 62 anni. Una leggenda, Kitanoumi (all’anagrafe Toshimitsu Obata), arrivato al più alto livello, quello di yokozuna, dopo una stupefacente vittoria nel torneo di Nagoya del 1974. Aveva soli 21 anni e due mesi quando divenne il più giovane campione della storia moderna. Un titolo conservato per 63 competizioni (anche questo un record) nel decennio successivo, fino al suo ritiro nel gennaio 1985. Nel ricordarlo, Hakuho, yokozuna dal 2007 al 2011, ha segnalato la sua gratitudine per il fautore del rilancio di questo sport. «Ha avuto per noi lottatori una considerazione superiore a quella di chiunque io conosca. È stato davvero un grande uomo», ha detto. Sicuramente, un uomo coraggioso che ha aperto le porte alla massiccia immigrazione di stranieri in una specialità più di altre considerata legata alla “nipponicità” e ne ha propiziato la diffusione internazionale. Al primo yokozuna non nato nell’arcipelago, lo statunitense delle Hawaii, Akebono, dal 1993 sono succeduti il conterraneo Musashimaru nel 1999 e quattro mongoli: Asashoryu (2003), Hakuho (2007), Harumafuji (2012), Kakuriyo (2014). Stranieri arruolati in una delle scuole preparatorie - istituzioni con proprie storia, carattere e forte rivalità reciproca - in cui a vita è scandita dall’allenamento e dall’autogestione affidata agli atleti che vi convivono anche se con età, esperienza e grado diversi. Un folto drappello di asiatici allargato ai coreani che ha aperto la strada a russi, ucraini, georgiani, bulgari, tongani, brasiliani, egiziani… Dopo il caos iniziale che aveva portato alcune scuole alla corsa allo straniero per tutelarsi da progressivo calo del vivaio locale, oggi viene ufficialmente permesso alle scuole di avere un solo straniero per ciascun livello di campionato, anche se si tratta di naturalizzati giapponesi. A spiegare la scarsa propensione dei giapponesi a entrare nella carriera di sumotori (praticante di sumo) o rikishi (più specifico per i professionisti) nonostante il prestigio e il benessere che può garantire a chi accede ai livelli più elevati, è la durezza della vita degli atleti, più una condizione totalizzante che una carriera sportiva. In questo senso connessa alla tradizione delle arti marziali giapponesi, con un’eccezione. Il livello del praticante di Sumo («afferrarsi l’un l’altro») non è frutto di esami che garantiscono un grado permanente, ma viene rimesso in discussione ogni due mesi dalle competizioni che, se vinte, consentono un avanzamento, se perse garantiscono la retrocessione. Una vita scandita da regole, impegni, necessità. Tra tutte, l’alimentazione che consente di acquistare peso e abbassare il baricentro. Una dieta di anche 20mila calorie giornaliere che incentiva diabete, alta pressione, problemi cardiaci e artrosi, in buona parte responsabile di una aspettativa di vita inferiore di un decennio a quella media dei giapponesi e che raramente supera i 65 anni. Gestire quotidianamente necessità e difficoltà di un uso intenso di corpi che pesano mediamente 150 chilogrammi per 185 centimetri di altezza per i maschi, è in sé un’impresa. Restano poi da curare l’elaborata acconciatura simile a quella dei samurai del passato e i ridotti ma saldi perizomi e cintura che costituiscono tutto l’abbigliamento del sumotori nelle gare. Non guastano coreografie e capacità specifiche da sviluppare al fine di consentire, con la partecipazione a manifestazioni folcloristiche o promozionali, maggiore visibilità e anche un arrotondamento dei proventi dell’attività agonistica. Le regole sono semplici: vince chi spinge l’avversario fuori dall’area del combattimento sulla pedana sopraelevata oppure chi lo costringe a toccare il terreno con una parte che non sia la pianta dei piedi. Le rivalità che pure non mancano tra gli atleti, alimentate dalle contese tra le scuole e da enormi interessi, abitualmente restano compresse tra le regole dell’onore e della sportività. I combattimenti sono brevi, di pochi secondi, su uno spazio sopraelevato di 4,55 metri di diametro. Tra una cacofonia che nelle arene maggiori e nei confronti più attesi diventa tifo che nulla ha da invidiare a quello calcistico. Incluso il lancio di cuscini e di giornali verso il ring, con un’animosità compressa dalla capacità di assorbire emozioni e tensioni tutta nipponica ma anche dall’esempio di chi si muove sopra la pedana del combattimento. Tutto nell’ambientazione - anche nei palazzetti più moderni - richiama al cuore antico del giapponese, alla sua tradizione insieme estetizzante e pratica. L’architettura e l’ambientazione compenetrano il sacrario dell’antica fede Shinto e un funzionale spazio per competizioni; i costumi degli inservienti, degli arbitri e degli atleti, le loro mosse studiate, le espressioni verbali ricordano un Giappone che sa ancora sorprendere integrando gli opposti. Che non manca però di aspetti negativi, che hanno toccato in più casi il mondo del Sumo, rischiando di affondarlo, nel 2010-2011, con il più grave scandalo della sua storia all’incrocio tra scommesse e incontri truccati e infiltrazione delle cosche mafiose locali.