Formidable. Ammaliata dalla sua gestualità alla "petit Jacques Brel", la stampa già acclama Stromae come erede dell’autore di
Ces gens-là e
Ne me quitte pas. «Un paragone ideale per essere odiati» si schermisce lui, al secolo Paul Van Haver, 28 anni. «Capisco che i fans di Brel, me per primo, possano sentirsi indignati dal confronto. Io alla sua altezza? Non scherziamo, gli arrivo sì e no alla caviglia». Basta lasciarsi avvolgere dalla sconsolata solitudine della stessa
Formidalble, il brano che lo chansonnier belga presenterà sabato prossimo alla platea del Festival di Sanremo, o dell’etilico videoclip girato a Bruxelles tra i passanti di Rond Point Louise, per capire che Stromae (le sillabe invertite di "maestro" in verlan, il gergo francese) è fatto di un’altra pasta rispetto al colosso di Schaerbeck. L’investimento emotivo che i paesi francofoni hanno fatto su Paul è enorme: due milioni di dischi venduti in quattro anni. E l’accoglienza tributata al secondo album
Racine Carée è entusiastica al punto da legittimargli il titolo di "Artista dell’anno". Per Stromae, figlio di un architetto ruandese e di una fiamminga, il meticciato culturale è pure artistico. Citando l’
Habanera di Bizet, in
Carmen, Stromae punta il dito sull’alienazione da Twitter, in
Quand c’est parla di cancro domandandosi «chi è il prossimo?», in
Ave Cesaria omaggia Cesária Évora, la regina scalza della morna capoverdiana, mentre nel video
Tous les memes si veste metà da uomo e metà da donna per condannare le discriminazioni. Tutto con un solido retroterra rap poi sfociato in un "melting pop" che frulla "chanson française", world music ed electro beat. «I testi del rap sono pieni di champagne, soldi, sesso, auto di lusso, mentre io invece preferisco cantare la vita reale».
Al contrario di Paesi come Inghilterra o Stati Uniti, storicamente il Belgio è sempre stato terra di conquista. Questo ha avuto un impatto sul carattere nazionale?«Ad Anversa ci sono stati problemi molto seri di tolleranza. Prima di guardare se un Paese è razzista o no dobbiamo ricordarci che nasciamo tutti un po’ razzisti e che la prima guerra da combattere è proprio contro questa nostra parte intollerante. È una inclinazione naturale dell’uomo. Tutti i nazionalismi hanno una componente razzista e le crisi economiche, politiche, sociali non fanno che acuire questo sentimento. E invece noi qui in Belgio dovremmo ringraziare l’immigrazione dall’Italia e dal Marocco perché ha contribuito in maniera sostanziale al benessere della nostra società».
Ha avuto modo di assimilare un po’ di musica italiana?«In Belgio vanno forte classici come Bocelli o Ramazzotti, ma io preferisco la house music dei Crookers».
«Papaoutai», "papà dove sei?", un’altra canzone dell’ultimo disco: lei parla di un’assenza paterna che assomiglia da vicino a quella di suo padre.«Più che una canzone sull’assenza la intendo come una canzone di radici. Mio padre è morto nel ’94, vittima del genocidio ruandese. Avevo nove anni, ma lui se n’era andato di casa quando ero ancora in fasce. L’avrò visto sì e no una decina di volte. Un giorno è arrivata una telefonata e ho scoperto di essere rimasto orfano. Penso che sia stata molto dura per Tutsi ed Hutu trovare un modus vivendi col vicino che ti ha ucciso il padre o un figlio. Ma l’odio genera solo altro odio. E non è di questo che ha bisogno l’Africa».
Nella musica c’è molta identità nazionale... «Dal Dopoguerra in poi l’apparato commerciale ha reso quella inglese l’unica musica veramente internazionale, relegando tutte le altre in uno stato di subordine. Ma è assurdo pretendere che grandi culture europee come quella francese, italiana, spagnola, tedesca, rimangano in secondo piano».
Quindi?«Sogno una hit-parade multilingue, finalmente libera dalla supremazia anglo-americana. Intanto, però, sogno di poter condividere prima o poi una canzone con Adele. Naturalmente duettata da lei in inglese e da me in francese».