Il compositore russo Igor Stravinsky, cinquant’anni fa la sua scomparsa il 6 aprile 1971
«Ho spesso riflettuto sul fatto che essere nato e cresciuto a San Pietroburgo, una città neo-italiana, anziché slava o orientale, deve avere qualche nesso con l’indirizzo culturale della mia vita. Stile e perizia artistica italiana si ritrovano in ogni manufatto, si tratti di un edificio, una statua o un oggetto d’arte». Igor Stravinskij amava talmente il nostro Paese che aveva scelto per tempo il luogo dove venire sepolto: lo spicchio di terra riservato ai cristiani ortodossi nel cimitero dell’Isola di San Michele, nella Laguna veneziana. Accanto alla tomba di Sergej Diagilev, l’impresario russo che per primo aveva creduto nel suo genio. Cinquant’anni fa, dopo la morte a New York il 6 aprile 1971, il funerale venne celebrato nella Basilica dei Santi Giovanni e Paolo. Folla, autorità, militari in alta uniforme, diretta televisiva della Rai, programma musicale memorabile. Sandro Dalla Libera suonava l’organo.
Così come in vita, anche in morte al compositore nato in Russia, vissuto a lungo negli Stati Uniti, nutrito di cultura europea ed italiana, vennero riservati onori eccezionali, unici. Che l’anima fosse russa, è innegabile. In Ricordi e commenti, il libro nato dai dialoghi con il suo assistente e amico Robert Craft, alla domanda «che cosa amava di più in Russia? », Stravinskij risponde: «La primavera russa, violenta, che sembrava cominciare in un’ora ed era come se la terra intera si spaccasse. Da bambino, era ogni anno l’avvenimento più meraviglioso. Anche una ricorrenza del calendario ecclesiastico mi commuoveva profondamente, la cerimonia dell’Epifania, durante la quale una croce veniva battezzata nella Neva».
Il gelo, il rito, la rinascita. Quando, nel 1913, debutta a Parigi La sagra della primavera – la traduzione italiana non rende giustizia al valore rituale e sacro dell’originale francese, Le Sacre du printemps – nessuno capisce bene che cosa stia accadendo: i ballerini che non riescono a contare i passi, il pubblico che tali urti ritmici non aveva mai ascoltato, gli intellettuali francesi, a disagio con una forma di rappresentazione che si richiama esplicitamente ad un mondo ar- caico. Eppure, Stravinskij gioca a carte scoperte: «Scene della Russia pagana », precisa il sottotitolo. Nell’Europa produttiva, positiva, razionale e irresistibilmente avviata verso la prima delle tante catastrofi che ha conosciuto nel XX secolo, quel russo fa irrompere l’arcaico, il mistero di un rito primaverile violento, comune a tante e diverse civiltà. La Terra richiede sacrifici umani, l’eletta è l’adolescente che sarà sacrificata, con il consenso degli anziani seduti in cerchio. La vera novità dell’opera, come comprende Maurice Ravel, risiede non nella tecnica, ma nell’essenza, nel pensiero fondante questa musica.
Eppure, quando nel 1940 Stravinskij viene invitato a tenere le lezioni per la cattedra di poetica “Charles Eliot Norton” dell’Università di Harward, spariglia: «Chi dice rivoluzione, dice caos provvisorio, mentre l’arte è il contrario del caos; non può ab- bandonarsi al caos senza vedersi immediatamente minacciata nella vitalità delle sue creazioni, nella sua esistenza stessa». La musica non ha altro da esprimere che se stessa; non le appartengono valori etici, tantomeno proclami o programmi politici. Quando si possiede la tecnica, ogni avventura è permessa al compositore, che però non deve affidarsi soltanto alla ragione: «La sola ragione ci porta dritto alla menzogna in quanto l’istinto non la illumina. L’istinto è infallibile».
E il suo istinto, concluso il periodo delle opere scritte per i Ballets russes, lo ha condotto verso tanti territori lontani: la favola suonatadanzata- recitata de L’histoire du soldat, il povero, universale fantaccino in licenza facile preda del demonio; la scoperta della musica napoletana del Settecento e la nascita di Pulcinella e del periodo neo-classico. Da allora, Stravinskij sceglie di giocare con il tempo e gli stili: flirta con il tango e il rag-time, si rivolge al mito in Oedipus Rex, irrigidendo i personaggi come fossero statue e pretendendo che in scena indossino maschere; trascrive madrigali del primo Seicento, fa la parodia dell’opera italiana del Settecento in La carriera di un libertino, assimila la rigorosa sintassi dodecafonica, cita la staticità del canto gregoriano, scrive per il clarinettista jazz Woody Herman il Concerto per clarinetto, si ispira a temi sacri, come in The flood (Il diluvio), pensato per la televisione.
Al sacro aveva dedicato, nel 1930, un lavoro sublime, la Sinfonia di Salmi, per coro e orchestra. Exaudi orationem meam, Expectans expectavi Domine, Laudate Dominum i tre pannelli di una partitura dedicata «alla gloria di Dio». Il furore arcaico si era placato. Stravinskij rimane un enigma: il musicista che ha fatto irrompere nella cultura europea del primo Novecento l’aspetto dionisiaco, selvaggio – fauve, lo chiamarono i critici, non sapendo come altro definirlo – della fisicità primordiale del ritmo, è lo stesso che invoca il rigore della forma, del controllo. Pablo Picasso aveva capito l’aspetto bipolare e inscindibile della personalità dell’amico.
Nel disegno in bianco e nero che gli dedica nel 1920, lo ritrae seduto a gambe incrociate e mani conserte, i gemelli ai polsini della camicia, il nodo della cravatta trattenuto da una spilla, il fazzoletto che esce dal taschino della giacca, il gilet abbottonato fino all’ultima asola, i capelli pettinati e con la riga. Un uomo di 38 anni molto elegante. Un dandy. Però, la lente destra degli occhiali a pince-nez è larga il doppio della sinistra, le labbra sono sporgenti, naso, occhi e orecchie si stagliano pronunciati, sghembi, febbrili, voraci. I tratti sono forti, netti, scolpiti. Le parti del suo corpo che devono sentire, percepire, creare emergono tese, come di un felino in agguato. Per agguantare il caos e costringerlo in una forma.