Conrad Grünenberg, “Veduta di Gerusalemme” (1487) - Badische Landesbibliothek Karlsruhe
Pubblichiamo alcune delle pagine conclusive di Fra cielo e Terra. Gerusalemme e l’Occidente medievale (Carocci) di Antonio Musarra, docente di Storia medievale alla Sapienza di Roma.
Come tema storiografico, il rapporto tra Gerusalemme e l’Occidente medievale è apparentemente inesauribile. Per non parlare delle implicazioni sugli altri cristianesimi, quelli orientali, ovvero sulle altre fedi abramitiche. Siamo di fronte a uno snodo essenziale dell’autocoscienza cristiano-occidentale, per quanto tale espressione possa apparire problematica. Certo, la Gerusalemme albergante nel nostro immaginario è una costruzione culturale, posta progressivamente in essere nell’Occidente medievale. Nella Città terrena, così come in quella celeste, è andato specchiandosi, a lungo, il desiderio di trascendenza dell’homo europaeus. Tale desiderio fu tanto importante da spingere ad appropriarsi della sua sacralità, traslandone forme e immagini vicino a sé. V’è da chiedersi, dunque, se tale moto d’appropriazione sia proprio anche di altre forme culturali e religiose.
Un’analisi di questo tipo non è ancora stata fatta, benché la Città Santa sia stata al centro di studi molteplici. Vale la pena, pertanto, limitarsi a qualche osservazione partendo da quello che risulta essere il fenomeno più ampio e vistoso: il pellegrinaggio; per le religioni abramitiche – profondamente sorelle, nonostante secoli di violenze e incomprensioni – una grande esperienza di fede, che si realizza nel tentativo di raggiungere i “luoghi” di Dio, quegli spazi in cui epifanicamente riverbera la presenza di Colui che, secondo le Scritture, avrebbe deciso di mettere la sua “tenda” tra di noi (Es 40,34-35). Non siamo di fronte soltanto a una splendida metafora spirituale; ma a qualcosa di molto concreto. Lungo il cammino, la persona sperimenta nuovi modi di percorrere l’esistenza, nuove forme nelle relazioni, un nuovo modo di guardare e pensare sé stessa, favorito dal movimento, dal flusso, dalla lontananza, dal sentirsi “decentrati”.
Salire a Gerusalemme è un’esperienza dello spirito, interpretabile in maniera differente ma accomunata dal sostrato umano che unisce tutti i popoli, al di là delle differenze di credo. Certamente, parlare di spazi in rapporto con Dio può creare qualche problema. Non è, forse, vero che non c’è luogo dove Dio non si possa incontrare? Per la maggior parte delle religioni, il divino è ugualmente presente in ogni angolo dell’Universo; il mondo intero può considerarsi “tempio” della sua presenza. Ciò non toglie, tuttavia, che, come il tempo può essere scandito da momenti speciali di grazia, in modo analogo lo spazio possa essere segnato da particolari interventi salvifici. Tutte le religioni hanno avuto questa intuizione; in tutte le religioni troviamo tempi e spazi sacri nei quali l’incontro con l’Altro (o con l’Alto) può essere sperimentato in modo più intenso di quanto non avvenga abitualmente.
La sacralizzazione d’un luogo dipende dalla misura in cui esso esprime la specificità dell’intervento di Dio. L’Israele biblico, progressivamente cosciente di ciò, concentrò poco alla volta lo spazio sacro nel Tempio di Gerusalemme. Ancora oggi, gli occhi dei suoi figli si volgono a ciò che di esso resta: «Quale gioia, quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore. E ora i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme» (Sal 122 [121],1-2).
Per i musulmani, il pellegrinaggio alla Mecca – sovente, dopo aver visitato al Quds – è un mezzo di purificazione. Nel viaggio verso e attorno la casa di Dio, l’uomo può chiedere perdono per i suoi peccati e venire mondato a motivo del proprio pentimento. Dopo il pellegrinaggio, il credente porta il titolo meritorio di Hajji – dall’arabo ḥājj, participio attivo del verbo ḥajja (“fare il pellegrinaggio”) –, impegnandosi ad attendere a una vita maggiormente devota.
Per il cristiano, la concentrazione dello spazio sacro ha il suo culmine in Cristo, nuovo “tempio” (Gv 2,21), in cui abita la «pienezza della divinità» (Col 2,9). Secondo Paolo anche la Chiesa è “tempio” (1Cor 3,17), e lo è persino ciascun discepolo del Cristo, in quanto abitato dallo Spirito Santo (1Cor 6,19; Rm 8,11). Il pellegrino, pertanto – l’homo viator per eccellenza – è colui che è straniero su questa Terra, giacché egli è cittadino del Cielo; l’intera sua vita è un pellegrinaggio verso la patria celeste. Tutto ciò, evidentemente, non esclude che i cristiani possano avere luoghi di culto; è necessario, tuttavia, ch’essi ne comprendano il carattere funzionale, nella consapevolezza che la presenza di Dio non possa essere racchiusa in nessun luogo. Tale tensione si manifesta già nei testi evangelici. Con tutta probabilità, è su di essa che il Medioevo poggerà quel desiderio di traslazione della sacralità gerosolimitana in Occidente di cui si è detto.
Ancora una volta, tuttavia, va sottolineato quanto la dimensione celeste e quella terrestre restino inscindibili, caratterizzando, di fatto, l’approccio cristiano alla Città Santa. È quanto rammenta, del resto, in tempi più recenti, un pellegrino d’eccezione: uno dei “grandi” del Novecento, Giovanni Paolo II. Giunto in Terrasanta nel 1963, il giovane Karol Wojtyła scrisse parole ricche di emozione che compendiano il senso del pellegrinaggio cristiano: «Giungo in questi luoghi che Tu hai riempito di Te una volta per sempre […]. O luogo! Quante volte, quante volte ti sei trasformato prima che da Suo divenissi mio! Quando Egli ti riempì la prima volta, non eri ancora nessun luogo esteriore, eri soltanto il grembo di sua Madre. Oh, sapere che le pietre su cui cammino a Nazaret sono le stesse che il suo piede toccava quando era ancora Lei il Tuo luogo, unico al mondo. Incontrarti attraverso una pietra che fu toccata dal piede di Tua Madre! O luogo, luogo di Terra Santa – quale spazio occupi in me! Perciò non posso calpestarti con i miei passi, debbo inginocchiarmi. E così attestare oggi che tu sei stato un luogo d’incontro».
Recarsi in spirito di preghiera da un luogo all’altro, da una città all’altra, negli spazi particolarmente segnati dall’intervento di Dio, aiuta l’uomo contemporaneo non soltanto a vivere la vita come un cammino, ma a dargli plasticamente l’idea di un Dio che lo ha anticipato, che lo precede, che si è messo Egli stesso in cammino sulle strade dell’uomo. Il Dio dei cristiani – ma, potremmo dire, il Dio di Abramo – è, dunque, uno straordinario compagno di viaggio. Del resto, nei Vangeli, Gesù stesso è presentato come sempre in cammino da un luogo all’altro per annunciare la vicinanza del regno di Dio. «Venite, saliamo sul monte del Signore» (Is 2,3), dunque. La parola di Isaia, che immaginava un pellegrinaggio ideale nella cornice d’un ritorno dei popoli alla propria sorgente, conclude idealmente questo itinerario, nella speranza che l’uomo di oggi avverta sempre più pressante il richiamo a riscoprire la storicità delle proprie radici, antidoto efficace per il rispetto di quelle altrui.