«L’esame orale è durato 45 minuti, più recupero... E poi le domande, estratte dal bussolotto: pareva un sorteggio di Champions». Era destino che gli studi si sovrapponessero al calcio fino alla fine. Invece del triplice fischio, però, è arrivato l’atteso verdetto: Guglielmo Stendardo, difensore dell’Atalanta, da pochi giorni diventato avvocato. Ci aveva già provato un anno fa, senza fortuna. Non si è arreso, ha riprovato e c’è riuscito. «Solo le sconfitte aiutano a crescere, solo i veri uomini si rialzano», dice adesso.
Che fatica, però. Non sgobbava già abbastanza sul campo? «Ho la fortuna di avere due genitori che considerano il calcio un punto interrogativo e la cultura una certezza. Papà Giovanni è sociologo, mamma Anna medico: questo traguardo lo dedico a loro. Papà mi ha sempre “ricattato”: se non studi non ti porto all’allenamento. E io ho continuato a passare i giorni sui libri anche quando il calcio è diventato un lavoro. Studiavo tre ore al mattino e poi la sera, dopo l’allenamento, ripassavo. Quando arrivi in Serie A però non è facile concentrarsi, perché ti senti appagato. Ma è stato proprio lo studio a sostenermi nei momenti difficili».
Di solito i calciatori nel tempo libero fanno altro. Lei lo ha sfruttato bene. «Siamo fortunati perché ne abbiamo tanto. Qualche sera fa ero in un ristorante ad Agropoli, a gustarmi un ottimo piatto di spaghetti ai ricci di mare. Ho voluto conoscere la cuoca, bravissima. Mi ha detto che lavora di sera e di giorno studia ingegneria. Ecco, per lei è sicuramente molto più dura...».
Adesso che ha superato l’esame, però, appenderà finalmente i libri al chiodo. «No, perché dovrò tenermi aggiornato. E poi mi piace leggere, soprattutto di filosofia. Cartesio è il mio preferito: cogito, ergo sum. Fonda il suo pensiero sul dubbio, come Socrate, che sa di non sapere. Anch’io mi ritengo ignorante di molte cose, nel senso che sono consapevole di non conoscerle. Diffido, invece, delle persone che hanno solo certezze».
Gli altri calciatori la guarderanno come un alieno... «Al contrario, nello spogliatoio erano tutti felici per me. Ci tenevano moltissimo. E anche la società. Il presidente Percassi mi ha chiamato, ha voluto sapere cosa mi aveva chiesto la commissione. Ora festeggeremo».
C’è più tensione prima di una partita o prima di un esame? «Sono situazioni diverse. Se sbagli una partita sai che la settimana dopo hai tempo di rifarti, se fallisci un esame devi rimetterti a studiare tutto daccapo. Un po’ come nel mito di Sisifo».
Adesso i compagni le chiederanno consigli legali. «A volte ci confrontiamo su alcuni aspetti del diritto di famiglia e del regime patrimoniale. Con Cigarini e Raimondi spesso parliamo dei casi di cronaca: io rispondo sempre che prima di pronunciarsi bisogna conoscere gli atti. In tv si fanno troppi processi virtuali basati sul nulla».
Lei è un calciatore atipico. Non twitta nemmeno... «Non escludo di farlo, ma ai social network preferisco sempre un buon libro. E poi guardatevi intorno: sul treno la gente non si parla, concentrata com’è sul telefonino. Va bene la tecnologia, ma ci vuole equilibrio. In ogni cosa la saggezza sta nel mezzo».
L’Atalanta ha introdotto il codice etico, un bel passo in avanti per il calcio. «Credo sia una scelta costruttiva. Il diritto pervade ogni contesto, compreso lo spogliatoio. Ci sono sempre regole da rispettare, in campo come nella vita. In Italia non sempre lo comprendiamo. La crisi non è solo economica, ma anche morale e culturale. Il calcio dovrebbe veicolare valori positivi, soprattutto ai giovani: noi giocatori in primis, ma anche la stampa. Invece in giro vedo pochi opinionisti seri e molti esperti di fantacalcio».
Ha messo il dito nella piaga. «Serve un cambio di mentalità. Ci diamo troppa importanza e viviamo solo in funzione del risultato. Sento citare spesso il modello Germania. Allora iniziamo a imitare i tedeschi nella loro dote principale, la serietà. Devo dire che negli ultimi anni su questo punto non è andata molto bene...».
Cosa farà da grande? «Voglio continuare a giocare fino a 40 anni, perché il calcio è la mia passione. Poi si vedrà. Potrei restare nell’ambiente, oppure fare l’avvocato di diritto sportivo. Ma non so, nella vita tutto cambia velocemente. L’uomo propone, Dio dispone».
Lei è credente? «Credere nell’esistenza di Dio è una presunzione, ma lo è altrettanto pensare che non ci sia. Io credo profondamente, ma non rinuncio a farmi delle domande. La vita rimane un grande mistero».
Lei arrivò all’Atalanta dopo il caso scommesse. Difenderebbe un calciatore squalificato per combine? «Come dice il direttore generale Marino, chi vende le partite uccide il calcio. Ma la possibilità di difendersi va garantita a chiunque, anche a chi commette reati gravissimi. Come tutti, i calciatori hanno i loro doveri, ma pure i loro diritti».
Lei ne sa qualcosa, visto che vinse la causa per mobbing con la Lazio. Quanto è diffuso nel calcio questo problema? «Molto più di quanto emerga. Tanti sono intimiditi e non denunciano. Il mobbing si manifesta in modi sottili quando c’è di mezzo una trattativa. Non ti fanno giocare e parlano di “scelta tecnica”, come capitò a me. Poi al posto mio, di Pandev e Ledesma convocavano dei ragazzini della Primavera per l’Europa League. Ora, ridendo, dico che quella è stata la mia prima causa vinta. Ho dato i soldi in beneficenza, era una questione di principio. L’ho fatto perché nel calcio non succedessero più certe cose: i calciatori restano la parte più ingenua e pulita di questo ambiente. Per risolvere le cose basta il buon senso. Ma quando qualcuno ha deliri di onnipotenza è dura...».