martedì 4 febbraio 2020
Per il noto critico letterario americano scomparso a 90 anni, l'arte dello scrivere era un supremo patrimonio di civiltà e come la filosofia non vale nulla se non è, innanzi tutto, esperienza etica
il critico letterario George Steiner

il critico letterario George Steiner

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Il 23 aprile George Steiner ne avrebbe compiuti 91, quasi coetaneo dell’altro grande critico in lingua inglese, Harold Bloom, il quale quando è morto ne aveva quasi 90. Tra loro diversissimi, avevano però in comune almeno una convinzione: l’idea che la Letteratura andasse senz’altro intesa e tramandata come supremo patrimonio di civiltà, per un percorso di lettura condotto sempre in oscillazione tra bellezza e saggezza, con l’aggiuntiva coscienza che leggere, appunto, costituisca una necessità spirituale seppure aristocratica, ma anche un rischio. Proprio perché - Steiner lo sapeva meglio di tutti - il linguaggio è il depositario di ogni verità e rivelazione, ma anche d’ogni menzogna e mistificazione: non per niente la sua conversazione con Antoine Spire, pubblicata da Nottetempo nel 2005, s’intitola La barbarie dell’ignoranza.

Letteratura come supremo patrimonio di civiltà, che in Steiner muoveva dalla centralità ineludibile della Bibbia nella cultura non solo occidentale, Libro dei libri e, insieme, modello imperituro di ogni ermeneutica possibile, come del resto dimostra il suo libro più noto, Vere presenze (1989). Centralità che, nell’esercizio della critica - e nei modi di un’avversione implacabile alla semiotica, allo scientismo strutturalista - lo faceva risolutamente propendere per il commento, beatamente estraneo, anche negli anni della sua egemonia, alle tentazioni della teoria e alle implicazioni per così dire tecniche del suo discorso sul testo. Teoria, Testo, Scienza della Letteratura: Steiner era insofferente, se non allergico, all’astrattezza e all’enfasi delle maiuscole, dato che di maiuscolo riconosceva soltanto, consapevole com’era delle proprie radici ebraiche, la parola di Dio: poco importa se d’un Dio silente, se non addirittura assente.

Centrale, per Steiner, è stata la lettura di Heidegger, al quale dedicò, nel 1978, un volume importante. Epperò, la sua cultura cosmopolita, la robusta disposizione empirica, il senso della concretezza, una limpidezza e un sentimento del mondo molto anglosassoni, gli hanno impedito di cedere a quella notte in cui tutte le vacche sono nere che è l’Essere heideggeriano. Si potrebbe affermare, citando il titolo d’una delle opere più misteriose e suggestive del filosofo tedesco, che molte sue pagine sono leggibili anche come "sentieri interrotti": ecco perché credo che uno dei suoi lavori più suggestivi (e più candidamente sperimentali quanto alla storia della saggistica: lui che per altro aveva in uggia qualsiasi avanguardismo) sia quello dedicato a I libri che non ho scritto (2008), in cui il non aver scritto finisce per coincidere col dire di più. Ammirazione quella per Heidegger che, nel suo La lezione dei maestri (2003: per i tipi di Garzanti come gli altri citati sopra), non gli ha impedito di denunciarne, quanto al rapporto di Heidegger col maestro Husserl e con l’allieva e amante Hannah Arendt, tutta la miserabilità di uomo. Ciò per dire che, per Steiner, la letteratura e la filosofia non valgono nulla se non sono, innanzi tutto, esperienza etica, rapporto col mondo e intensificazione dell’esistenza, riflessione perpetua sui valori che, appunto, umani ci conservano.

Riguardo a I libri che non ho scritto Steiner annota: «Un libro mai scritto è più di un vuoto. Accompagna l’opera che si è compiuta come un’ombra fattiva, insieme ironica e dolente». E più avanti: «È il libro che non è stato mai scritto che avrebbe potuto fare la differenza. Che avrebbe potuto permetterci di fallire meglio. O forse no». Come sa chiunque fa critica - a dispetto d’ogni evidenza, la critica è il più immaginativo dei generi letterari -, anche i libri che invece abbiamo scritto mostrano, già dall’incipit, come una rinuncia e un rammarico. Ciò che scriviamo è sempre, infatti, anche la traccia di ciò che abbiamo perduto. Ho conosciuto Steiner non ricordo più in quale convegno: parlava un italiano eccellente e raffinato, lui che si muoveva con grande agio in almeno altre tre lingue moderne (inglese, francese tedesco) e due antiche (greco e latino), seppure ne conoscesse molte di più, ed era persino al corrente di quanto accadeva in Italia nella critica, persino quella dei più giovani. Un uomo semplice e incredibile - incredibilmente colto e incredibilmente essenziale - che non era disposto a sprecare nemmeno un istante inautenticamente.

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