Edith Stein (1891-1942) - archivio
Cristianizzare Auschwitz? Operazione ardua e forse neanche auspicabile. Si può parlare invece di una lezione della Shoah per le Chiese europee e per quella cattolica in particolare? Certamente sì. Tre sono le possibili risposte a queste domande. Innanzitutto la presa di coscienza della responsabilità enorme dei cristiani per l’avvento del nazismo e per la persecuzione degli ebrei. Se dopo quasi duemila anni di cristianesimo hanno potuto manifestarsi un’ideologia e un regime così violentemente razzisti, un mea culpa è doveroso e riguarda l’antigiudaismo e l’antisemitismo dei secoli passati, che oggi si ripresentano. La seconda via è quella del silenzio. Visitando il campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, nel 2006, Benedetto XVI disse: «Quante domande ci si impongono in questo luogo! Sempre di nuovo emerge la domanda: dov’era Dio in quei giorni? Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questi eccessi di distruzione, questo trionfo del male?». Il crollo della teodicea ha fatto discutere i teologi e i filosofi contemporanei. E queste domande angoscianti sul silenzio di Dio impedirebbero ogni spazio non solo alla filosofia ma anche alla teologia. Ma pure il volto di Dio che si fa compagno dell’uomo e che non è insensibile alla sua sofferenza è stato indagato dal pensiero del ‘900 (si pensi in particolare al filosofo ebreo Emmanuel Lévinas o al teologo protestante Jürgen Moltmann, che hanno postulato il concetto di “sofferenza di Dio” e di “debolezza di Dio”). Simone Weil ed Etty Hillesum al riguardo furono capaci di esprimere una grande visione: immerse fino in fondo in un oceano di male e di dolore, seppero non annegare, anzi presero su di sé la sofferenza di tutto un popolo senza al tempo stesso intentare un processo a Dio. Addirittura giungendo a rielaborarne il volto: mentre il male trionfa e dimostra la faccia più terribile, Dio ha bisogno di aiuto. Annota Etty nel suo famosissimo Diario: «Se Dio non mi aiuterà più, allora sarò io ad aiutare Dio». E Simone da parte sua, a proposito della presunta assenza di Dio rispetto alle vicende umane, scrive: «Creando il mondo, Dio volontariamente si è messo come da parte (non è forse l’amore di sua natura discreto e umile?) per non togliere spazio al libero gioco delle sue creature. Dio, perciò, non vuole essere temuto attraverso una visibilità ingombrante e soffocante, ma vuole essere cercato, perché ama dissimularsi dentro le pieghe della realtà, in attesa che qualcuno avverta il battito lieve della sua presenza». Ma per i cristiani c’è una terza possibilità in questo discorso che si fa non solo arduo ma temerario: papa Francesco più volte l’ha affrontato. Come nel marzo 2015 a Napoli, rispondendo a una giovane a proposito del dolore innocente: «Il nostro Dio è anche il Dio dei silenzi e ci sono silenzi di Dio che non si possono spiegare se non guardi il Crocifisso. Il nostro Dio sta anche in silenzio. Ricordati: è il Dio delle parole, il Dio dei gesti e il Dio dei silenzi». Un accento che a suo modo si ritrova nel romanzo La notte di Elie Wiesel, in cui un kapò nazista fa impiccare a un albero un bambino costringendo i detenuti del lager ad assistere. Un prigioniero esclama: «Dov’è il buon Dio?». E lo scrittore risponde a voce bassa: «Eccolo lì, appeso a quella forca». La forca e la croce, il silenzio e il mistero. Tutti ricordano l’ultimo messaggio della Hillesum: «Abbiamo lasciato il campo cantando», scritto su un biglietto getrespirare tato dal treno che la portava al lager dove avrebbe trovato la morte. Dal campo di smistamento di Westerbork, “l’ultima fermata prima di Auschwitz”, passò anche Edith Stein. Sulla sua figura ha scritto ora un saggio illuminante e conturbante al contempo (Edith Stein. Storia di un’ebrea, San Paolo, pagine 160, euro 16,00) Vittorio Robiati Bendaud, saggista ebreo allievo di Giuseppe Laras, che vuole interrogarsi sul significato della sua conversione per ebrei e cristiani. Perché a parere dell’autore Edith Stein e diversi altri intellettuali ebrei assimilati alla cultura europea, e tedesca in particolare, si trovarono a un clima favorevole alla loro apostasia: da Roth a Bergson, da Scheler a Rosenzweig – l’unico che sulla soglia del cristianesimo preferì infine tornare alla religione degli avi – tutti si sentivano più europei che ebrei e perciò inclini a fare il passo della conversione. Ma quello di Stein fu un salto più che un passo, dato che non solo si fece cattolica ma anche carmelitana. Uno schiaffo per la sua famiglia e per la madre Auguste in particolare, a cui lei si sentì comunque sempre legatissima senza negare nulla delle sue origini, ma partecipando appieno alle vicissitudini del suo popolo. Come dimostra la lettera accorata che scrisse nel 1933 a Pio XII, in cui sollecitò con forza il pontefice a prendere posizione in difesa degli ebrei dinanzi alla persecuzione sempre più evidente. Robiati Bendaud rilegge la vicenda della Stein attraverso la sua autobiografia ( Dalla vita di una famiglia ebrea) e la visuale della nipote Susanna, figlia di Erna, una delle sorelle di Edith ( Zia Edith. Eredità ebraica di una santa cattolica): due libri che a loro modo si completano, con giudizi diversi e a volte contrastanti sui vari personaggi della famiglia Stein. Entrambi i volumi sono stati pubblicati da Ocd, le edizioni dei carmelitani scalzi. Edith era stata spinta dalla mancanza di atmosfera religiosa che c’era nella sua famiglia, o da pulsioni verso l’ateismo? Forse entrambe le cose. Ma il processo che la portò alla conversione non avvenne per acquiescenza al mondo intellettuale in cui operava. Quando rese noto il suo desiderio di farsi cattolica, il gruppo filosofico riunito attorno a Husserl manifestò la propria delusione: a quel tempo fra gli studiosi e gli accademici prevaleva la fede luterana e la cultura cattolica era vista negativamente. A dire il vero, la futura carmelitana si stava già allontanando dal maestro, che le aveva preferito l’altro allievo Heidegger, salvo poi pentirsene più avanti. C’era nel creatore del metodo fenomenologico innanzitutto un pregiudizio maschilista ma senza dubbio anche un sentimento anticattolico, radicato nella Germania del tempo. Dunque la conversione della Stein è assolutamente sincera, sia che la causa occasionale sia stata la lettura di Storia di un'anima di Teresa di Lisieux che l’aver seguito in chiesa una donna con le borse della spesa e averla vista pregare intensamente. Quello di Robiati Bendaud è un salutare pugno in faccia per i cattolici. Non gli va l’ipotesi di cristianizzare Auschwitz, ed è comprensibile e condivisibile. Animatore del dialogo fra ebrei e cristiani, sostenitore dell’unicità della Shoah rispetto alle altre forme di persecuzioni di ieri e di oggi – anche chi scrive la pensa così – si è speso più volte per ricordare il genocidio degli armeni scrivendone assieme ad Antonia Arslan, Certo ai cristiani di fronte alla Shoah, oltre che tacere e non dare adito in nessun modo all’antisemitismo, spetta il compito di capire. Resta la scelta di Edith, vera pietra d’inciampo per il mondo ebraico ieri come oggi. La sua conversione è destinata a far sempre discutere ebrei e cattolici e per questo motivo la sua figura, come dice Robiati Bendaud e come mostra di condividere Cristiana Dobner nella postfazione, ben difficilmente può costituire un modello per il dialogo ebraico-cristiano. Ma resta la grandezza della sua figura, come filosofa e come testimone, come santa e come martire, morta ad Auschwitz il 9 agosto 1942 con la sorella Rosa anch’essa fattasi cattolica e monaca, alla quale disse nel convento olandese di Echt prima di essere arrestata dalla Gestapo: «Vieni, andiamo per il nostro popolo». Esempio supremo di quell’empatia che eresse a simbolo del suo pensiero.