I tifosi del Bastia
Nel 1988 lo scrittore Manuel Vázquez Montalbán nel suo capolavoro Il centravanti è stato assassinato verso sera aveva scritto che il Barcellona rappresentava «l’esercito simbolico e disarmato della Catalogna, una nazione senza Stato». Una definizione calzante che, sostituendo “Barcellona” e “Catalogna”, può essere applicata a tante squadre, diventate, prendendo a prestito proprio il motto della società blaugrana « més que un club », “più che un club”.
Come l’Athletic Bilbao, 120 anni di storia, otto titoli di Spagna, nessuna retrocessione in seconda serie e un rapporto speciale con i Paesi Baschi. Dalla loro nascita i Leoni, come sono soprannominati i biancorossi, hanno infatti tesserato solo giocatori nati, cresciuti calcisticamente o originari della regione, che nell’accezione dei nazionalisti comprende, oltre alle tre province della regione, la Navarra e i territori baschi francesi. Una squadra autarchica, che ha fatto del legame con la sua terra un punto distintivo, anche fuori dal campo. Il club bilbaino ha per esempio sempre utilizzato, tranne nel periodo franchista, l’euskera come prima lingua dei suoi documenti (se entrate al Museo del club quell’idioma campeggia sopra lo spagnolo e l’inglese nelle spiegazioni nei pannelli) e nella travagliata situazione politica dei Paesi Baschi ha preso spesso posizione a favore delle istanze autonomiste e indipendentiste. E forse non è un caso se la prima volta che la bandiera basca, la ikurrina, è stata esposta pubblicamente dopo la morte di Franco è stato nel dicembre 1976, prima di una partita dell’Athletic contro i rivali regionali della Real Sociedad; e se la sua casa, lo stadio San Mamés (la mitica “Catedral”), è stato teatro di molti dei match della selezione non ufficiale basca e dai suoi spalti si sono alzati cori e slogan a favore dell’indipendenza della regione. Istanze simili a quelle sostenute per la Corsica dai tifosi del Bastia dalle tribune dello stadio Armand Cesari. Un club che esattamente quarant’anni fa, nel 1978, perdeva una finale di Coppa Uefa contro il PSV Eindhoven e che nel 2017 è scivolato a causa di problemi finanziari dalla Ligue 1 alla quinta serie.
La squadra, che ora si chiama Sporting Club Bastiais, è la società che, tra quelle corse, mostra più orgogliosamente e frequentemente il suo legame con l’isola. Corsi sono l’attuale presidente Ferrandi, l’allenatore Rossi e il capitano Gilles Cioni, uno dei pochi a essere rimasto nella discesa all’inferno del National 3; corsi sono i simboli mostrati, come la bandiera Testa Moro, la stessa che campeggia sul vessillo regionale, e in corso sono gli slogan cantati dagli ultrà turchini, capaci di invadere Parigi per la finale di Coppa di Lega 2015 con il PSG. E fin dagli anni Settanta la dirigenza e il club sono sempre stati vicini ai movimenti nazionalisti e autonomisti, che peraltro ora dominano la politica dell’isola dopo le elezioni del 2017.
Se per baschi e corsi Athletic Bilbao e Bastia sono e sono stati, soprattutto nei momenti storicamente difficili, un mezzo per rivendicare un’identità culturale, così per i cabili in Algeria è con la Jeunesse sportive de Kabylie. I gialloverdi, quattordici titoli nazionali e due Champions League africane in bacheca, sono la squadra di Tizi Ouzou, capoluogo della Cabilia, regione del Nord del Paese di lingua e cultura berbera. Lì, dove negli anni Settanta e Ottanta il governo centrale aveva portato avanti una politica di arabizzazione forzata (tanto da cambiare tra il ’78 e il ’90 la denominazione della squadra per evitare che nella sua denominazione apparisse il nome della Cabilia), tifare il JSK era una delle poche forme di affermazione della propria identità. E quando i canarini vincevano contro le quotate formazioni di Algeri, come nella finale della Coppa nazionale del 1977, la festa era doppia. Ora, anche se la situazione politica è migliore rispetto al passato, il Dna cabilo del club, testimoniato dal ruolo centrale nella cultura della regione (non sono pochi per esempio gli artisti che hanno cantato il loro amore per il club), è rimasto immutato. Tanto che qualcuno rilegge l’acronimo del club JSK, con un « Je suis kabyle », sono cabilo.
E, come i berberi, anche i curdi in Turchia hanno nel calcio uno dei modi per esprimere la propria identità. Lo fanno con l’Amedspor, club della città di Diyarbakir, il capoluogo non ufficiale del Kurdistan turco. I rossoverdi militano in terza serie, ma oltre che per la cavalcata in Coppa di Turchia nel 2016 (ko nei quarti di finale con il Fenerbahçe) sono famosi per la loro battaglia per affermare il loro essere curdi. Nel 2014 decisero di cambiare, senza chiedere l’autorizzazione, il nome della società da Diyarbakir Büyükiehir Belediyespor in Amedspor utilizzando così il toponimo curdo della città (per questo furono multati) e nel 2016, proprio durante la magnifica esperienza nella Coppa di Turchia, i suoi tifosi furono arrestati, multati e gli fu vietata la trasferta successiva per aver intonato cori sgraditi. Provvedimenti a cui si aggiunse una perquisizione alla sede del club e la squalifica per 12 giornate a Deniz Naki, giocatore curdo nato in Germania, reo in un post su Facebook e un tweet di aver dedicato il successo alle vittime e ai feriti della repressione del Kurdistan. Posizioni a favore del popolo curdo che Deniz, oggetto di un attacco armato a inizio 2018 e squalificato a vita dalla Federcalcio turca, non aveva mai nascosto neanche in precedenza quando militava in Germania nel St. Pauli, dove aveva anche sfidato durante una partita di seconda divisione i tifosi di estrema destra dell’Hansa Rostock. Lì tra la Reeperbahn, l’antica strada dei cordai, e il Millerntor, il caldissimo stadio del quartiere più particolare di Amburgo, aveva assaggiato la filosofia di un club identitario alla sua maniera. Una società legata al territorio, ma aperta a tutti, nel nome della tolleranza e con un occhio attento al sociale. Perché certe squadre sono più di un club.