venerdì 5 maggio 2017
Arriva in libreria la drammatica e inquietante denuncia del coraggioso sacerdote che lotta contro i trafficanti di droga e di migranti rischiando quotidianamente la vita
Padre Alejandro Solalinde, la sfida infinita ai narcos
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I sequestri. Cominciarono senza che ce ne accorgessimo. Gruppi di migranti sparivano, qualcuno mormorava. Tutto era molto confuso. Mi misi, dunque, ad indagare. Non feci tutto da solo, ovviamente. I ragazzi della vecchia parrocchia, altri che avevo conosciuto quando lavoravo in una casa per minori, decisero di darmi una mano (...) Ogni anno, 500mila centroamericani irregolari attraversano il Messico nel viaggio verso gli Usa. Un terzo passa per la nostra zona, nell'Oaxaca, nel sud. Dato che non hanno documenti nessuno si preoccupa se scompaiono. Una preda fin troppo facile per i gruppi criminali che, in combutta con le autorità, controllano vari pezzi del Paese.

Ci mettemmo a investigare. E comprendemmo che i conti non tornavano. Era evidente che molti "migranti" si perdevano per strada. Dove finivano? Muovendoci tra dicerie e false piste, con molta pazienza e un po' di evangelica incoscienza, riuscimmo a ricostruire la "macchina dei sequestri". Chi li prendeva, dove li portava, chi aiutava i narcos, ovvero la polizia municipale. Il quadro che emergeva era inquietante. Sapevo che dovevo fare qualcosa. Non avevo, però, niente di concreto. Erano sospetti... (...).
Poi, quel 10 gennaio la situazione finalmente esplose. Dodici guatemaltechi furono rapiti mentre dormivano in stazione, in attesa del nuovo treno che li avrebbe portati verso nord. Qualcuno, però, scampò al rapimento e seguì i sequestratori, fino vedere dove avevano portato i migranti. Ce lo segnalò e andammo. Là trovammo vari zaini e i migranti riconobbero subito che appartenevano ai compagni. Era evidente che erano stati là ed erano andati via da poco. Lo dimostravano i bicchieri mezzo pieni sul tavolo e un mazzo di carte, sparse. C'era perfino la ricevuta di un versamento incassato giorni prima da Juan José Gómez Rivera. Tutti sapevamo che era lui il capo della banda di sequestratori. Ora, finalmente, potevamo incastrarlo.

In quel momento arrivò la polizia. In teoria – solo in teoria – avrebbe dovuto darci una mano, di fronte a quelle prove. E invece¿ Ci arrestarono e fecero scappare i responsabili! (...) Fino a quel momento, non avevo capito che enorme cloaca stessi scoperchiando. Un giro di soldi, corruzione, complicità, silenzi. Provai dolore. Sapevo che spesso i poliziotti erano complici, non sono un ingenuo. Ma non immaginavo fino a che punto. Loro avrebbero dovuto difendere i migranti. E, invece, li consegnavano nelle mani del crimine. Di chi potevo fidarmi? A chi rivolgersi per esigere giustizia? La corruzione si era annidata nel cuore delle istituzioni. E come un cancro si estendeva, divorandole. L'arresto fu una benedizione. Vidi il "mostro" in faccia. A quel punto, il terrore paralizzante lasciò il posto a un bizzarro desiderio di non arrendermi. Pensai al versetto: «Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia». Non avevo immaginato quanto l'assenza di quest'ultima potesse creare quasi un dolore fisico. Un'arsura lancinante. Fu un bene. Perché così mi dimenticai un po' della mia paura. Certo, spesso, ritorna. Allora chiedo a Dio di starmi vicino. E lo sento accanto a me. Grazie a Lui ho potuto proseguire finora. (...)

Lentamente, dato il baccano che facevamo sulla stampa, i sequestri si spostarono più a Nord. Mi piacerebbe dire che sono finiti, ma non è così. Nel Messico attuale, i rapimenti continuano. Solo non li fanno quasi più a Ixtepec. È troppo "esposta", per colpa mia... Li mettono a segno a Reynosa, Piedras Negras, a Veracruz. Ciò non mi rende popolare tra i narcos. Ho mandato all'aria i loro affari nella zona. Come mai sono ancora vivo? Ho una teoria. Il crimine organizzato non agisce solo. Non potrebbe arrivare fin dove arriva altrimenti. Gode di complicità politiche. I trafficanti non si farebbero troppi problemi a premere il grilletto contro un sacerdote. I politici loro amici, però, non vogliono uno scandalo...(...)

I migranti sono un segno dei tempi. Sono vittime del neoliberismo selvaggio che ha divorato il proprio Paese d'origine e li ha costretti a lasciarlo. In questo senso, sono testimoni di un mondo in disfacimento, ne portano le ferite sulla loro carne. Al contempo, però, i migranti sono i pionieri del futuro. Anticipano, con la loro ostinata resistenza, la possibilità di una nuova società. Perché? Perché non hanno paura di rischiare. I migranti rischiano il tutto per tutto, in nome della vita, per se stessi e per le loro famiglie. Sono i più indifesi, gli eterni esclusi eppure non si fermano, vanno avanti, camminano, confidando in una forza che, comunque la chiamiamo, solo Dio può infondere. Il loro viaggiare, invincibile e dolente, rammenta a noi, ormai accomodati e aggrappati alle nostre certezze, che siamo tutti pellegrini.

Tutti siamo migranti. Il sistema dominante – la religione del denaro – ci ha anestetizzato il cuore. Ci ha tolto la luce, ci ha tolto Dio, il Dio della vita e l'ha sostituito con un idolo. Ci ha tolto gli altri, avvelenando le relazioni e trasformandole in una gara cieca e senza senso. In questa nebbia, i migranti rappresentano una luce. Forse l'ultima, prima di essere inghiottiti dal buio. Possono salvarci se glielo permettiamo. Perché? Perché non hanno paura. Non hanno nulla da perdere: il sistema gli ha già strappato tutto. Sono, dunque, costretti ad andare all'essenziale. Lo imparano lungo il cammino, fra atroci sofferenze. Noi, invece, siamo perennemente terrorizzati. Temiamo di perdere il denaro, il benessere. La paura ci paralizza. Rendendoci ancor più schiavi di questo sistema disumanizzante.

Alziamo un muro e chiudiamoci dentro. «Non possiamo farli entrare, se no a noi che resta?», ci ripetiamo. O noi o loro. Questo ci hanno fatto credere.Non è così. Da soli, chiusi a doppia mandata nelle nostre isole blindate, viviamo paralizzati dal terrore. O, ancora, ci illudiamo di vivere. Non è, però, troppo tardi. Possiamo e dobbiamo avere il coraggio di rischiare un po' del nostro benessere per restare umani. Non più noi o voi ma noi e voi, io e l'altro. Insieme. O ci salviamo tutti o tutti verremo travolti. È una scommessa forte. Ma ne sono sempre più convinto: ne vale la pena.



Un sacerdote testimone sotto scacco con una taglia sulla testa
Sulla sua testa i "signori" della droga hanno messo una taglia da 1 milione di dollari. Ora padre Alejandro Solalinde, prete candidato al Premio Nobel per la pace 2017 per il suo impegno in difesa dei migranti indocumentados in Messico, racconta la propria storia nel libro "I narcos mi vogliono morto. Messico, un prete contro i trafficanti di uomini" (Emi, pagine 160, euro 15,00; prefazione di don Luigi Ciotti), in libreria da oggi. Per presentare la sua autobiografia, scritta insieme a Lucia Capuzzi, giornalista di Avvenire, Solalinde terrà nei prossimi giorni una serie di incontri su invito di Emi e Amnesty International in collaborazione con Libera e Avvenire come mediapartner. Domani alle 17 sarà in Triennale a Milano al Festival dei Diritti Umani con il procuratore capo Francesco Greco. Lunedì interverrà a Reggio Emilia, martedì a Bolzano, mercoledì a Lecco. Tra i 19 incontri in programma, da segnalare il 14 maggio il dialogo con don Pierluigi Di Piazza a Udine (Festival vicino/lontano), con il direttore di Avvenire Marco Tarquinio a Roma (17 maggio), con Moni Ovadia e padre Alex Zanotelli al Salone del libro di Torino (18 maggio). Tutte le info su www.emi.it, #padresolalinde, tel. 051/326027.

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