domenica 9 ottobre 2016
Un poeta sull'arca di Sokurov
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Aleksandr Sokurov lo aveva dichiarato apertamente: «Il mio non sarà uno spettacolo fedele al testo di Brodskij». Promessa mantenuta fin dalla locandina, dove dell’unico dramma composto dal grande poeta russo non rimane più traccia. Il copione, se di copione si può parlare, si intitolava era stato composto nel 1984 e portava al punto di massima tensione ironica una delle ossessioni ricorrenti in Brodskij: la metafora dell’Impero, e dell’Impero romano nella fattispecie, inteso come modello ideale di ogni espansione politica e concentrazione totalitaria. Succedeva, in quel testo, che l’imperatore avesse stabilito di garantire la pace mediante la carcerazione di una percentuale fissa di cittadini, sorteggiati in maniera tanto arbitraria quanto democratica. Colpevoli o non colpevoli, finiscono in cella comunque, a due a due. Unica divagazione concessa, i busti dei classici latini (i “marmi”, appunto), che possono essere cambiati ogni tanto, previa domanda all’autorità competente. Brosdkij – morto a New York il 28 gennaio 1996, pochi mesi prima di compiere 56 anni – ci scherzava su, ma che cosa fosse la prigionia lo sapeva veramente. Condannato per “fannullaggine” dal tribunale sovietico, tra il 1964 e il 1966 aveva scontato la pena ai lavoro forzati nel remoto distretto di Konosa, dalle parti di Arcangelo. Il suo era stato un caso clamoroso, anche se quel giovane poeta con una spiccata passione per i “metafisici” del Seicento inglese non dava esattamente l’immagine convenzionale dell’intellettuale impegnato. Alla fine, nel ’72, ottenne il permesso di espatriare e si stabilì negli Stati Uniti, dove nell’87 la raggiunse la notizia che gli era stato conferito il Nobel per la letteratura. Brodskij se ne rallegrò, ma fece anche osservare che la borsa, per quanto generosa, non era sufficiente per l’acquisto di un appartamento a Manhattan. Elia Schilton, che lo impersona nello spettacolo di Sokurov, ce lo restituisce forse più sorridente di quanto fosse in realtà, ma l’idea di farlo spesso intercalare in inglese è senza dubbio efficace: nel pieno della sua maturità poetica Brodskij ha infatti esercitato un peculiare bilinguismo anglo-russo, procedimento prima mentale che letterario in virtù del quale i suoi versi e le sue prose hanno assunto una cadenza memorabile. Non stupisce, dunque, che sia proprio lui a pronunciare la battuta decisiva, quel “vai, vai, vai!”, rivolto a Publio e Tullio, che in erano i due prigionieri designati e che nella drammaturgia allestita da Sokurov in collaborazione con Alena Shumakova (l’allestimento scenico è firmato da Margherita Palli) sono invece due disgustosi uomini- ratto, che si aggirano filosofando nei dintorni di un cinema all’aperto dove si proietta una copia abbastanza malconcia di di Fellini. Mescolata tra il pubblico, in attesa che il Maestro faccia la sua comparsa, c’è anche una chiassosa Anna Magnani, qui interpretata dalla nipote Olivia Magnani.  In via di principio la distinzione dell’originale viene rispettata: uno è il purosangue, l’altro il barbaro che si è fatto una posizione avanzando dai confini dell’Impero. Solo che poi, in pratica, il Tullio di Max Malatesta e il Publio di Michelangelo Dalisi si scambiano continuamente i ruoli, anche perché la mutazione della quale sono vittime non solo li ha resi metà uomini e metà roditori, ma li ha anche trasformati in mostruose creature bifronti. Tullio porta sulla nuca la faccia di Publio, e viceversa. Neanche il poeta, in fondo, riesce più a distinguerli. Prima regia teatrale di uno dei maggiori registi cinematografici dei nostri anni, condensa in poco più di un’ora una straordinaria complessità di temi e situazioni. Sokurov stesso ne parla come di uno «spettacoloinstallazione », originariamente concepito per il trionfo palladiano del Teatro Olimpico di Vicenza, dove è andato in scena per la prima volta la scorsa settimana, e adesso in cartellone, fino al 30 ottobre, al Teatro dell’Arte di Milano, in un contesto architettonico molto diverso (siamo nel Palazzo della Triennale, gioiello razionalista realizzato da Giovanni Muzio nel 1933). L’impatto visivo riporta a capolavori come Leone d’oro a Venezia nel 2011, e più ancora (2002), il monumentale piano-sequenza con il quale Sokurov ha ripercorso gli episodi cruciali della storia del suo Paese. La riflessione sul potere e sull’impero accomuna, in modo del tutto indipendente, la sua opera a quella di Brodskij e proprio per questo non era possibile pensare che Sokurov si limitasse a una semplice messinscena di  Anche nella versione milanese, che il regista stesso definisce «più popolare», sono i movimenti delle comparse, perfettamente sincronizzate tra loro e con le voci dei protagonisti, a trasmettere il sentimento di una coralità altrimenti assente in Brodskij. Il quale, quando appare nelle sembianze del mite Schilton, si limita a fare da spettatore alla tragedia che lui stesso ha evocato, recitando a richiesta qualche frammento delle sue poesie. «Una dracma / d’oro è rimasta sopra la mia rètina. / Basta per tutta la lunghezza della tenebra», recita il finale delle magnifiche Non importa se è ormai solo una pellicola che Publio e Tullio farebbero meglio a rosicchiare, anziché cadere nella trappola allestita per loro attorno a una forma di formaggio. Questa in fondo è un’altra storia, che va vista a teatro.
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