Il "cantastorie" Daniele Silvestri - 2020 Albert D'Andrea
Il racconto di “Disco X”, il suo 10° album, dalla voce del cantautore romano che ha coinvolto amici artisti e il suo pubblico nell’atto creativo di un lavoro che è il più bello della sua carriera Daniele è tornato e si fa sentire forte e più chiaro che mai. Daniele Silvestri da trent’anni a questa parte - il primo album ( Daniele Silvestri) è del 1994 - è uno straordinario compagno di vita e di viaggio per la mia generazione, quella a cui, sornione, ne Le cose in comune chiede «ma dai, pure tu sei degli anni ’60?». Ma anche per i ragazzi delle generazioni successive, fino a quella odierna dei millennials, la “Z Generation”, sono tante le cose in comune che mette in musica, specie in quest’ultimo disco gioiello (senza piaggerie o enfasi generazionali), Disco X ( esce il 9 giugno). Il decimo album realizzato in carriera, in cui accompagnato da una band da sogno (i musici fedelissimi, più gli oriundi brasiliani Selton) passa dal rock progressive della migliore tradizione italica, al pop fino a quel jazz che nelle cantine romane lo spillavano come il vino buono dei Castelli, almeno fino a quando c’era il Principe Pignatelli, figura unica per genio e dissipazione, ritratto magistralmente da Marco Molendini nel suo libro Pepito. Il principe del jazz (minimum fax). E anche mastro Molendini sa che quando si parla di Silvestri si va alla voce “artista completo”. L’ultimo erede vero (con Brunori Sas e i fraterni e altrettanto geniali, Max Gazzè e Niccolò Fabi), del cantautorato di stampo “dalliano”, al quale Silvestri aggiunge quel know-how surreale e ironico del suo teatro-canzone e lo spirito narrativo di un Flaiano prestato alla musica d’autore. Silvestri oggi più che mai è un marziano a Roma nel quartiere dell’intronata routine del cantar leggero, e lo conferma in tutte e dodici le canzoni di Disco X. «Daniè, ma sto disco è un capolavoro!», sta inciso nel cd il messaggio di Franchino, al secolo il rapper romano Franco126. E dopo l’ascolto sottoscriviamo in toto. Il giovane uomo col megafono non ha mai smesso di gridare ai compagni e agli amici «Giustizia, Progresso! Adesso». E a questi appelli umanitari il Silvestri maturo aggiunge anche la richiesta di «pace», specie per quei figli della guerra, gli orfani di tutte le follie armate dai potenti della terra che sacrificano la purezza dei civili per i loro sporchi egoismi.
Stop alla guerra è il grido esplicito di While The Children Play in cui canta: «Intanto i figli giocano... Ogni bambino è il mio bambino».
È una canzone che nasce da una precisa presa di coscienza, quella della guerra in Siria e la conseguente nascita di una piccola onlus, “Every child is my child” di cui faccio parte con amici attori e musicisti. Da quella frase «every child is my child» è uscito questo brano che canto assieme a Wrongonyou. Ora lo scenario attuale geograficamente è ancora più vicino a noi di quello della Siria, ma dobbiamo sempre tenere a mente che ci sono tante guerre lontane che non vogliamo e non possiamo vedere, anche perché non ci vengono raccontate. E la tragedia è che ci sono bambini che da quando sono nati hanno conosciuto solo uno “stato di guerra” e quando uno di loro salta in aria solo perché ha sbagliato il campo dove andare a giocare con gli altri bambini, non possiamo sentirci con la coscienza a posto: quegli oggetti mortali li costruiamo noi, ora e qui, e li mandiamo lì, nei loro paesi.
Non possiamo rimanere insensibili neppure alle tragedie dei migranti e al razzismo verso le minoranze etniche come i sinti a cui è ispirata la struggente Mar Ciai.
La canto con Eva e lei mi ha regalato un passaggio della lingua sinta che è una lingua affascinante, solamente orale che si ciba del dialetto del luogo in cui mette radici. Nel caso di Eva è il padovano, e quelle parole hanno dato voce alla sua nonna e a una storia viscerale, antica, quanto straziante, che finisce in maniera tragica. La musica, preesistente, per contrasto si muove tra la fragile gentilezza e l’ingenuità della protagonista della storia e l’incomprensibile morte procurata per una discriminazione secolare verso gli zingari. Il termine zingaro ormai nel linguaggio comune viene usato come dispregiativo, ma solo per ignoranza verso una cultura ignota ai più e che io che la seguo da tempo trovo invece meravigliosamente affascinante.
In Disco X dice: « Per fare un sacco di clic ci vuole un ospite X». E ancora: «Nessuna pagina imperdibile da conservare che ce n’è tante da confondersi » Qual è il senso di questo classico gioco idiomatico, molto silvestriano?
Prendere in giro la modernità. Non a caso Disco X è volutamente suonato all’antica, con la precisa volontà di non dover essere obbligato a stare al passo con i tempi. L’unica libertà che c’è rimasta è quella di prenderci i nostri tempi per creare delle cose belle, per questo non condivido il tutto e subito e le sentenze definitive, quanto immediate, per i giovani artisti che affidano il loro destino ai talent show televisivi. «Se stessi andando spedito al fronte sarebbe sempre più divertente», mando a dire a questi ragazzi e ai loro genitori che li spingono verso il grande sogno o l’eterna illusione con quel «fatti valere, facci sognare» in cui c’è tutta l’ansia patologica delle ambizioni della famiglia che vede nel potenziale talento del figlio l’unica via di riscatto...
Sono tutte storie che mettono le varie generazioni a confronto.
E infatti per ogni singolo brano ho chiamato le persone giuste per la storia che volevo raccontare: Franco 126 è perfetto per raccontare la Roma di oggi in Bella come stai, così come Giorgia che conosco da trent’anni è la voce che serviva per parlare di un amore nato come un bel film in Cinema d’essai. E questo gioco perfetto di incastri vale per tutti quelli che hanno collaborato al disco e che non ho ancora nominato: Emanuela Fanelli, Frankie hinrg mc, Fulminacci e Selton.
Il presente e il futuro nel disco a un certo punto incrociano la nostalgia che è palpabile in Scrupoli in cui «a Berlino... », diventa «a Toronto ci sono stata con Bonetti, era fredda ma intrigante». Un omaggio che con Fulminacci fate a Lucio Dalla. Quanto è grande il vuoto che ha lasciato il grande Lucio che, come ricorda l’eterna 4 marzo 1943 avrebbe compiuto 80 anni.
A me la musica di Dalla ha riempito la vita e continua a farlo sempre di più. C’è stato un tempo in cui mi sono quasi “autocensurato” per non citarlo, ora non lo faccio più, cerco anzi di realizzare tutto quello che mi ha insegnato. Lucio è stato un maestro e un grande amico di famiglia. Mia madre Emanuela Casali, bolognese, da giovane faceva la cantante jazz nello stesso gruppo in cui suonava Lucio e Pupi Avati. Tempo fa a Bologna in un locale, per caso mi sono ritrovato davanti una locandina di un concerto dei primi anni ‘60 e in fondo a caratteri piccoli figuravano i nomi di mia madre e di Lucio Dalla...
Corsi e ricorsi. E a un certo punto il cantautore è ricorso al suo pubblico. Il brano Tutta è nato da quella richiesta di invio di storie e spunti per nuovi brani di Disco X. E visto quanto è ispirato questo lavoro, l’esperimento pare riuscito.
Sì e sono contento che il pubblico che mi segue da anni sia stato partecipe dell’atto creativo. Mi sono arrivate delle storie entusiasmanti, alcune anche dolorose che nel tour teatrale ogni sera leggevo citando la fonte o in alcuni casi sono diventate delle canzoni con i protagonisti rimasti nell’anonimato. Tutto questo mi ha permesso di liberarmi di quell’etichetta ingombrante del cantautore per farmi finalmente “cantastorie”. Una dimensione quella del cantastorie che sento più mia e che mi ha restituito finalmente la leggerezza e la libertà del racconto.