La regista iraniana Shirin Neshat a Salisburgo (Anne Zeuner)
«Aida sono io». La regista iraniana Shirin Neshat racconta che spesso, in queste settimane di prove a Salisburgo, i confini tra lei e il personaggio verdiano «si confondono». Perché lei, come la schiava etiope raccontata da Giuseppe Verdi, conosce l’esilio. «Da donna ho vissuto sulla mia pelle la rivoluzione islamica e per poter essere libera ho lasciato l’Iran. E il prezzo che ho dovuto pagare è stata la separazione dalla mia famiglia, dalle persone care. Come Aida anch’io ho nostalgia per la mia terra, ma guardo avanti ». Shirin Neshat ha scelto come sua nuova casa gli Stati Uniti. Qui racconta le donne, dietro una macchina da presa e con l’obiettivo di una macchina fotografica. Ma il 6 agosto la sessantenne regista cinematografica (nel 2009 il Leone d’Argento a Venezia per la regia di Donne senza uomini), fotografa e visual artist debutta nella regia lirica. Lo fa al Festival di Salisburgo, la più importante rassegna musicale del mondo (in un mese e mezzo dalla città di Mozart passano i grandi nomi della musica), in quello che si annuncia come lo spettacolo dell’anno: biglietti esauriti da tempo, bagarini che offrono un posto a prezzi con tre zeri per l’Aida che vedrà sul podio Riccardo Muti e Anna Netrebko, la star incontrastata della lirica di oggi, debuttare nel ruolo della schiava etiope. La regista iraniana, nata a Qazvin nel 1957, non sembra, però, intimidita. «Certo, quando il sovrintendete Markus Hinterhauser mi ha offerto di dirigere lo spettacolo mi sono detta: Deve essere pazzo. Invece poi ho iniziato a leggere il libretto e ho capito perché si è rivolto a me. Aida parla di donne e di tiranni come ce ne sono tanti oggi. Racconta una storia di oppressione e di esilio. Racconta una guerra inutile, così come le tante che ci sono nel mondo». Aida siamo noi, potremmo dire, perché in scena a Salisburgo, seppure senza forzature o modernizzazioni estreme, si vedrà una storia che rispecchia la società del 2017, tra fanatismo religioso, regimi e guerre. Temi attuali che hanno spinto Shirin Neshat «seppure con un po’ di timore ad accettare la sfida. Anche nella mia vita personale c’è la dicotomia tra la femminilità e la tirannia e l’oppressione politica che Verdi ha messo in musica. Ecco perché mi identifico con Aida, perché so come ci si sente sradicati dalla propria terra». Dunque un’opera, quella che Verdi scrisse per l’inaugurazione del nuovo teatro del Cairo, dove andò in scena il 24 dicembre 1871, che parla di immigrazione. «Aida, come le tante persone che arrivano oggi in Occidente, è una sopravvissuta: vive sentimenti di nostalgia, di rabbia, di speranza di ritorno» racconta la regista iraniana convinta che «Verdi scrisse un’opera profondamente politica. Racconta del trionfo di un popolo su un altro. E nel mondo arabo ho sentito diverse voci che leggono come razzista il melodramma. Forse anche perché nel corso dell’opera spesso si invoca Guerra! Guerra! In realtà è una profonda critica all’uso della violenza. Per questo, per mettere in risalto una tragedia profondamente umana, ho voluto in scena ballerini con maschere di animali, quasi fantasmi che i personaggi non vedono, ma che aleggiano sulla storia, evocano la guerra, senza glorificarla, ed evidenziano la tragedia della protagonista » spiega Shirin Neshat per la quale, poi, «Aida è un’opera profondamente intima. Che definirei femminista, perché racconta un confronto drammatico tra due donne, Aida e Amneris, un contrasto tra pubblico e privato in un mondo politico che le opprime. Una vicenda senza tempo». Da qui l’idea di un allestimento lineare, semplice senza scene fastose come capita spesso quando in cartellone c’è Aida. Niente elefanti e cammelli. Sul palco, invece, un Medioriente evocato da costumi tradizionali per il popolo egiziano e moderni per i prigionieri etiopi. «Per provare a raccontare dal punto di vista di un’orientale un mondo visto e messo in musica da un occidentale ». E, nello stile della regista, ci saranno anche molti video che rimandano all’attualità. «Certo – riflette – cinema, arti visive e opera hanno linguaggi diversi. Che però possono dialogare e arricchirsi a vicenda. Il ritmo o la storia non possono essere modificati, ma è possibile, entro giusti limiti, trovare la propria interpretazione che tenga in equilibrio la forza dell’opera lirica e la potenza della storia. Nella scena del Trionfo ci saranno volti di rifugiati a fare da contraltare agli etiopi prigionieri di guerra. Nel quarto atto, quando i sacerdoti egiziani condannano Radames con un processo-farsa dove la sorte dell’eroe è già decisa, immagini di fanatici che esercitano la violenza » anticipa la regista che ha girato a Vienna con rifugiati siriani e cittadini austriaci «per dire che il bene e il male ci sono dappertutto e che non è così facile dire chi abbia ragione e chi torto». Grandi tematiche che in Aida si intrecciano, come vogliono le regole del melodramma, con una storia d’amore. Destinata a finire tragicamente. Aida decide di essere sepolta viva con Radames, condannato a morte mentre la rivale Amneris piange l’uomo che ha amato. «Un finale dove i protagonisti scelgono la morte per andare contro le regole imposte dal potere» riflette Shirin Neshat che con un filo di amarezza, poi, conclude: «Per me non c’è una luce alla fine del tunnel».